Porto de Galinhas, Brasile

Il racconto di viaggio di Giovy che nel 1998, visita per la prima volta il Brasile: un viaggio ed un’avventura raccontata in modo piacevole e coinvolgente…

Avevo 20 anni, tondi tondi perchè era il 1998. Lavoravo dall’ottobre prima ed ero fortunata perchè a 20 anni avevo già tra le mani un contratto a tempo indeterminato e potevo permettermi 3 settimane di ferie per volare dall’altra parte del mondo: in Brasile. O meglio, a Recife, nel Pernambuco … pieno Nord-Est brasileiro, posto fatto di contraddizioni eterne. Mi ricordo il volo lunghissimo, via Bruxelles e ricordo pienamente l’odore acre dell’aria quando uscii dall’aeroporto assieme alle altre 5 persone che viaggiavano con me.

Ci venne a prendere Antonio, un nostro amico che si era preso un anno sabbatico e che faceva volontariato nel Barrio do Pina, nella Favelas do Bode presso un centro fondato da due suore con un coraggio grande come il mondo. Quell’estate, per quelle tre settimane, io mi occupai di seguire alcuni meninhos de rua del centro di Recife. Attraversavo la favela tutti i giorni e, momento dopo momento, i sorrisi verso di me aumentavano e il fruttivendolo mi lanciava una Guajava tutte le mattine.

Il primo giorno ero timorosa, l’ultimo piangevo per non andare via. Quei giorni vissuti nell’ultimo luogo che ognuno spererebbe per chiunque, venivano intervallati da week end di decompressione perché altrimenti impazzivamo. Quando si affrontano certe esperienze, è necessario darsi una tregua senza sentirsi in colpa perché noi non siamo abituati a tutta quella vita difficile ed restarci dentro troppo ci annulla al punto di non essere più utili alla causa che ci ha fatto volare dall’altra parte del mondo. Per questo, senza colpe, è necessario garantirsi una decompressione… perché il nostro carattere è cedevole.

La mia prima pausa… e quella dei miei compagni di viaggio si chiamò Porto de Galinhas, un luogo a sud di Recife, che raggiungemmo con un pullman scalcagnato. Nel 1998 era ancora genuino, piccolo, con poche posadas e tanti pescatori.
Ora ho idea che sia  un po’ più turistico … ma mi piace pensare che la sua essenza sia ancora quella di 13 anni fa.

Il nome di quel luogo si deve all’epoca coloniale quando gli schiavi arrivavano copiosi in tutte le Americhe.
In Brasile la schiavitù venne abolita nel 1888 e, malgrado questo, gli schiavi continuavano ad arrivare con il nome in codice di “Galline dall’Angola”. Gli schiavisti mandavano missive ad Olinda o Recife dicendo “stanno arrivano le galline dall’Angola”.
E molto, di quell’epoca, è rimasto nel piccolissimo centro storico di quel luogo nordestino.
C’è la piazza dove gli schiavi venivano venduti e tutti gli aggeggi ai quali venivano legati. Ci sono le fazende, lì vicino, e ci sono le case signorili. Io le fotografavo pensando, nell’ingenuità dei miei vent’anni, a quanto il Brasile non fosse cambiato.
Infondo si era solo modernizzato. I nuovi schiavi erano incatenati ad una società impari e difficile, ad un destino avverso nel caso si nascesse nella parte sbagliata della città.
No, non dovevo fare quei pensieri quel giorno… era il mio momento di decompressione… no Giovy… basta, non devi.
Invece continuavo e nella mia mente girava a loop una frase di Frei Betto, persona splendida che ebbi la fortuna di sentire in una conferenza a Recife qualche giorno prima: egli affermava che il Sud America altro non era che lo specchio del mondo che sarebbe venuto di lì a poco tempo, con una separazione ampia tra i ricchi e i normali… che a lungo andare sarebbero diventati i nuovi poveri.
 Era il 1998, avevo vent’anni… non volevo crederci ma quel pensiero non mi lasciava. Lascia la storia e con lei quei pensieri… spinta anche dal mio amico Antonio che mi diceva “Giovy, ora basta”. Tornammo verso la spiaggia e mi misi il costume dietro un cespuglio di chissà che cosa. Era rosso scuro, mi ricordo bene, e contrastatava con tutta la crema solare che mi misi per non diventare dello stesso colore. Sentivo l’odore buonissimo dell’Oceano e la tranquillità di una spiaggia vuota. Uscii dal cespuglio e davanti ai miei occhi vidi la più bella spiaggia di tutta la mia vita.
Forse perché era la prima fuori dall’Europa, forse perché era la prima tropicale, forse perchè la mia anima aveva bisogno di tanta bellezza e forse perchè davvero esiste una legge di compensazione tra la difficoltà della vita e la bellezza dell’ambiente…. non so, ma ancora oggi se mi si chiede qual è la spiaggia più bella che i miei occhi abbiano abuto la possibilità di vedere, beh… la mia risposta è Porto de Galinhas. Me ne restai lì tranquilla tutto il giorno… a giocare con i miei amici a “sfida l’onda”… entravo in acqua e poi mi facevo letteralmente schiaffeggiare dalla potenza dell’oceano. Se chiudo gli occhi sento ancora tutto quel gioco sulla mia pelle.
La decompressione funzionò e riprendere il pullmann scalcagnato, la sera, per tornare a Recife fu un po’ dura. Rientrai nell’ostello universitario dove dormivamo.
Mangiai un cachorro quente con i miei amici. Bevemmo una Brahma assieme. Ridemmo come matti per una pantegana caduta da una palma senza farsi niente. Ci interrogavamo, tornando alla realtà, delle milioni di sirene che sentivamo… polizia, pompieri, ambulanza,cosa? Andai a letto quella notte sentendo la scottatura che avevo preso in viso. Mi misi un po’ di crema nella speranza che la pelle la smetta di tirare. I miei pensieri erano lì, presenti e costanti, come il geco che puntualmente si presentava di fianco al mio letto. Eravamo amici ormani. Ero l’unica rimasta sveglia in camera in un certo momento, credo. Quello fu il momento in cui decisi che avrei voluto capire perché l’America Latina era lo specchio di un’Europa Futura. Quando tornai a casa mi iscrissi all’università. Il mio piano di studi diceva una sola cosa: Storia dell’America Latina.

Non so se certe ispirazioni possano venire a tutti. Ma vi auguro davvero di poter “decomprimere”, un giorno, a Porto de Galinhas.
Fa bene al cuore e apre gli occhi, cose non trascurabili al giorno d’oggi.

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