Dal Nepal al Tibet: seconda parte

Prima di arrivare a Nyalam si devono superare due passi oltre i 4.500 metri. Ai bordi della carreggiata c’è la neve, il cielo è sempre più vicino. Arriviamo a Nyalam che è quasi mezzogiorno. Un breve controllo ai passaporti e si prosegue subito in cerca di qualche ristorante per il pranzo. Troviamo un localino dove cucinano i “momo”, una specie di ravioloni ripieni di carne o di verdure: bolliti non sono male, e se ci metti un po’ soia diventano una delizia. La sosta è breve. Entro sera dobbiamo raggiungere Old Tingri, l’unico posto in cui si può pernottare perché poi, per centinaia di chilometri, non ci sarà più nulla: solo grandi distese disabitate e montagne.

Old Tingri è solo un piccolo villaggio: una fila di case basse, un distributore di benzina, una guest house e una strada, la Friendship Highway e nient’altro. La strada è la vera casa di tutti. I bambini giocano con palloni fatti di stracci, i più grandicelli e le donne accudiscono il bestiame, i vecchi passeggiano ruotando il mulino di preghiera. Ovunque si respira un’aria di pace e sacralità mentre, all’orizzonte, le montagne si illuminano dietro l’ultimo raggio di luce. Da queste parti il tempo non è scandito dall’orologio. Ci si mette in movimento non appena il sole sorge e ci si ferma non appena il sole tramonta. È così anche per me, mi adeguo e seguo il ritmo del giorno e della notte. Domani sarà una giornata intensa, difficile…

La mia meta è Rongbok, il campo base dell’Everest. La pista sale lentamente verso sud. Piove, i fiumi sono in piena e non è facile trovare i passaggi per guadare i corsi d’acqua. Ci si muove su una vecchia Toyota cercando di non perdere mai il riferimento dell’esile traccia segnata sul terreno. Ci vuole tutta una giornata di viaggio, ma finalmente quando nel cielo saettano gli ultimi raggi di sole davanti a noi appare maestosa la cima della montagna più alta del mondo, l’Everest. L’ emozione è grande, indescrivibile. Dove termina la strada c’è un piccolo rifugio. È qui che passeremo la notte, a 5.200 metri di quota sotto il monte che domina il mondo. Ci infiliamo dentro col vento gelido che sferza senza tregua mentre il buio della notte cala velocemente.

Quassù tutto è più difficile: muoversi, alimentarsi, dormire, ma il silenzio e l’atmosfera di questo magico luogo alimentano il nostro corpo e creano la forza necessaria per superare questi ostacoli. Nel cielo le stelle sembrano accendersi e, mentre le bandierine con le preghiere sventolano nel nulla dell’altipiano, noi – come sempre – siamo solamente timidi spettatori.

La discesa verso Lhatse è spettacolare. Le nuvole sono basse e scure, a tratti cadono scrosci di pioggia. Dai finestrini della jeep intravediamo accampamenti di nomadi. Sembra di assistere ad un video clip girato nel passato. Lhatse è una città anonima. Un grande viale taglia in due l’abitato. Ovunque ci sono insegne cinesi e di tibetano è praticamente rimasto pochissimo. Solo il piccolo mercato è degno di una visita, il resto è solo cemento, messo lì per dare una parvenza di progresso. Per raggiungere Shigatse bisogna superare il Gyatsola Pass a 5.220 metri. La strada si snoda sui pendi dolci delle montagne creando geometrie affascinanti.

Shigatse è una delle più importanti città del Tibet e il monastero di Tashillumpo le dona lustro e bellezza. Questo monastero attira migliaia di turisti da tutto il mondo, e si resta davvero senza fiato quando si cammina per i vicoli che si intrecciano tra una miriade di cappelle dove i monaci sono intenti nella preghiera quotidiana. Tashillumpo fu fondato nel 1447 da un discepolo di Tsongkhapa, Grend Drup, che fu successivamente nominato Dalai Lama e le cui spoglie sono ancora custodite in una cappella del monastero.

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