7 mila miglia intorno al mondo #23: Salar de Uyuni, il deserto di sale

Le tappe precedenti:

Dal diario di Gabriele Colleoni

Salar, la terra senza tempo

Annunciato dal solitario affaccio sul ciglio della strada di un lama nell’azzurro cobalto del mattino, all’orizzonte scorgiamo la sottile linea biancastra del Salar de Tunupa, per tutte le guide del mondo, più prosaicamente: Salar de Uyuni.

Superato l’ultimo avamposto umano di Colchani, con il dovuto timore reverenziale andiamo incontro a uno degli ultimi “mostri” del pianeta, cioè  a una di quelle cose davvero oltre ogni eccezione. Sì, perché qui a 3650 metri sulle Ande, la Terra ha deciso di mettersi sotto… sale. Una unica, semplice colata di sale, disegnata da pentagoni ed esagoni irregolari, a perdita d’occhio, in qualunque direzione si guardi davanti a noi. Migliaia e migliaia di chilometri quadrati.

L’impressione è che Pachamama abbia fatto lo scherzetto di prosciugare gli antichi laghi Minchin e Tauca, per conservare, nei limiti del possibile e dell’avidità umana, quel lato selvaggio e primigenio del pianeta che tiene lontano e al tempo stesso strega – attirandolo ma distraendolo da più biechi pensieri – il suo più fastidioso inquilino. E il Salar questo mestiere pare saperlo fare: incanta sorprendendo per il totalmente diverso che è, in un mondo antropizzato;  rapisce in una mistica dello stupore davanti alla potenza della natura, che fa vacillare anche il laico più scettico e scafato. Il tutto alla faccia delle piste che lo solcano ma che restano per ora solo fragili tracce in un labirinto, pronte ad eclissarsi con le prime piogge di fine dicembre. Alla faccia degli alberghi di lusso che tentano, ad ondate, di offrire un’emozione all-comfort sul bordo del Salar. Alla faccia, infine, del fragoroso transito della carovana della Parigi-Dakar versione Sudamerica che infiamma le amministrazioni locali tanto da essere immortalato persino in monumenti. Ma stavolta, moto, camion e fuoristrada della Dakar sul Salar, no pasaran… con le piogge in arrivo il lago si richiude su se stesso attorno all’isola di Incahuasi e dei suoi giganteschi cactus-custodi, mettendo al bando per un paio di mesi ogni passaggio umano.

Luogo di strani incontri, il Salar. Del resto, non è da tutti… Per guadagnarselo, bisogna prima superare la sfida di almeno un paio di centinaia di chilometri di apparente nulla. Othmar Prinoth, guida gardenese, vi ha portato come premio finale la turista che ha accompagnato sui vicini vulcani cileni. Si gode la giornata che anticipa il rientro a casa, scherzando e parlando, incuriosito dall’essersi imbattuto nei sei marziani della 7milamiglialontano. Il tempo di una firma, ed ecco materializzarsi nel biancore del lago il ciclista solitario, che ci raggiunge sorridente. Hedger Schaarschmidt, mountainbiker tedesco, è partito da Lima e vuole raggiungere Santa Cruz. Che incroci formidabili. Si allontana, alzando il braccio in segno di saluto mentre svanisce nell’abbaglio del Salar. Vai Hedger, sei tutti noi… Non rinunciare a rincorrere il tuo miraggio.

A tavola sull’isola che c’è

Nel grande abbaglio del più vasto deserto salato del mondo, ad un certo punto appare – come  sospesa in uno spazio incerto tra il cielo e il Salar – un’isola. Non è un miraggio: Incahuasi, la casa dell’inca, esiste; è l’isola che c’è… Un’oasi nell’arsura battuta dai venti, gelosamente vigilata dai cactus giganti che la punteggiano. E nell’oasi cosa cercano tutti i pellegrini? Ristoro ed ombra. Se le due cose si coniugano poi sotto il tetto di Joaquim, il “cocinero” dal volto indio e dalle mani veloci, la zuppa di quinua o una fetta di lama ben cotto alla piastra, accompagnato da riso e quinua con le immancabili “papas fritas” (un bravo a chi indovina cosa sono), possono anche trasformarsi, esagerando, in una sorta di “ultima coca cola nel deserto”. Da degustare senza fretta, seduti all’ombra. E persi nell’infinito miraggio del Salar.

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