Il Bosforo, le bombe e il canto di Istanbul

Martedì, 13 gennaio 2016. Leggo i quotidiani online, un’altra bomba in Turchia. Questa volta ad Istanbul. Morti, feriti, e poi ancora paura, ansie, tensioni, minacce e promesse, polarizzazioni e nazionalismi. Ogni bomba che deflagra estende la sua onda d’urto sui valori civici e morali di tutta la società libera. Libera, ma sempre più vicina al precipizio, alla caduta verso le facili letture, verso la tentazione di puntare il dito contro il complice designato.

Leggo il giornale, ma sono seduto tranquillo nel mio ufficio, riparato dal resto del mondo dalla placida città in cui vivo e lavoro. Ma era un clima simile quello che mi aveva accolto in Turchia in occasione della mia visita, alcuni mesi fa. Era la fine di ottobre, a pochi giorni dalle elezioni presidenziali. Era la fine di ottobre, ed erano passate poche settimane dalla bomba che ad Ankara aveva falciato la vita di un centinaio di manifestanti che chiedevano pace e libertà. Lo chiedevano urlando la loro rabbia contro il governo di Recep Tayyip Erdoğan, ma quest’ultimo si è appropriato della loro morte per condurre la popolazione spaventata alle urne e accaparrarsi una nuova legislatura dietro la bandiera della sicurezza ad ogni costo.

Istanbul, Turchia

Prima di ritornare in Italia mi ero concesso qualche giorno a Istanbul, la Porta d’Oriente. L’anello tra l’Europa cristiana e il Medio Oriente musulmano. Un giorno, passeggiando a Sultanahmet – dove la bomba di martedì ha tolto la vita a dieci turisti stranieri ferendone altri 15 – sono stato sorpreso dal canto dei muezzin. Era circa mezzogiorno e mezzo, nell’area tra la Basilica di Aya Sofya, la Basilica Cisterna e il Palazzo Topkapı. Il canto dei diversi muezzin non procedeva all’unisono, era un rincorrersi a più voci, un ciclone di passione spirituale che mi percorreva e mi accompagnava.

Era il canto di un mondo antico ma ancora vivace, così lontano e così vicino. Era il canto di una città e di un popolo sospesi tra Oriente e Occidente, ma anche tra passato e presente, tra speranza e paura, tra libertà e sicurezza. Una sinfonia sottile che assume forme diverse a seconda di quale arteria si stia attraversando per giungere al cuore della città, alla sua anima oscura e lucente.

Yeni Cami - Istanbul, Turchia

È il canto dei gabbiani, quando al tramonto si attraversa il Bosforo sui traghetti che collegano la Istanbul europea con quella asiatica. È il fischio del treno che sfreccia in profondità, quando il medesimo stretto lo si attraversa rapidi lungo il tunnel sottomarino Marmaray, circa venti minuti da Yenikapı a Sirkeci. È il soffio del vento mentre si sale per le scale della Torre di Galata, costruita dai Genovesi, gente che di linee sottili tra est e ovest ne sapeva qualcosa.

È il rumore delle onde quando si passeggia sotto il Ponte di Galata, a sud della torre, occupato da bar e ristoranti, sempre affollato di visitatori e pescatori che lanciano speranzosi le loro esche oltre le ferrose ringhiere. È il vociare dei commensali nei ristoranti di Üsküdar o di Kadıköy, dove ogni pasto è accompagnato dai generosi sorsi di rakı, acquavite aspra e socializzante.

Istanbul è tutto questo e molto di più, dalle imponenti cattedrali e moschee di Fatih agli adorabili piccoli bistrot stretti tra librerie e negozi di dischi a Taksim. Dalle donne velate che si muovono furtive tra i vicoli della città vecchia, alle giovani studentesse e donne in carriera che passano le loro giornate negli uffici di Maslak, e le loro serate ai concerti o in discoteca.

Difficile dire come si evolverà una città che è già così tante cose insieme. Quali pulsioni, quali paure o quali speranze la guideranno negli anni a venire, così incerti per larga parte del globo. Di certo, però, Istanbul continuerà ad essere una terra tra due mondi, un canto vago di visioni vicine e distanti.

1 commento su “Il Bosforo, le bombe e il canto di Istanbul”

  1. Bell articolo! Complimenti! Mi piace la città! Anche il tünel, la piú antica metro d europa è bella!

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