Karijini National Park nell’Australia più remota

Esiste sempre un buon motivo per viaggiare. Nel mio caso è il piacere di trovarmi in una situazione nuova, regalare ai miei occhi un’immagine che all’improvviso li stupisca. Ed è solo viaggiando che riesco a trovare la forza di superare i miei limiti. La mancanza di emozioni mi spaventa… per questo ho amato il Karijini National Park in Australia Occidentale.

Ce ne hanno parlato già pochi giorni dopo il nostro arrivo a Melbourne, lo descrivevano come un luogo surreale. Un’immensa meraviglia naturale, ubicata in una zona così remota del pianeta da renderla nascosta. Immaginate di dover percorrere 300 chilometri in un deserto di arbusti bassi e secchi e sabbia rossa. Questo è l’unico modo per raggiungere il Karijini.

Primo giorno: in viaggio verso il Karijini

Sveglia presto e partenza da Exmouth. Dopo aver nuotato con gli squali balena io e La Vale siamo pieni di energia positiva e ci sentiamo invincibili. Partiamo quindi verso il Karijini senza la minima preoccupazione.

Per la strada il solito avvistamento di animali selvaggi australiani: aquile, un paio di serpenti, pecore, mucche, struzzi, dingo, un’istrice e lucertole. Ci fermiamo in un’area di sosta vicino al parco, mezza chiusa per le piogge dei giorni scorsi. Nel bagno c’è una rana ad aspettarci… sarà velenosa?

Decidiamo di passare qui la notte e scambiamo due chiacchiere con una coppia di pensionati che viaggia in senso contrario. Ci avvisano che alcune strade del parco sono chiuse per il maltempo. In effetti danno piogge per oggi e per domani, e considerando che le uniche raccomandazioni ripetute da tutti finora sono state “NON nuotate con i coccodrilli e “NON guidate con la pioggia al nord”, non siamo proprio nella situazione ideale.

Secondo giorno: viaggio al centro della Terra

La mattina fa un freddo bestiale, la sera è piovuto e ci sono nuvole spessissime. Il morale è capovolto rispetto a ieri. Andiamo al Visitor Centre gestito completamente da aborigeni per informarci sullo stato delle strade. C’è un piccolo museo, semplice e spirituale. Sembra che molte parti del parco siano chiuse ai van.

Aspettiamo fino alle ore 13 e poi partiamo verso le gole. Il meteo non può fermare la nostra avventura. Iniziamo il percorso scendendo fino alle Fortescue Falls, che formano la piscina naturale Fern Pool. Proprio in quel momento si aprono le nuvole ed esce un sole splendente. Alcuni dei pochi visitatori si spogliano e si tuffano nelle sue acque gelide.

Rimaniamo stupefatti da questo luogo, ci troviamo decine di metri sotto il livello della terra e le pareti sono formate da lastre di pietra rossa. Decidiamo di guadare il corso d’acqua formato dalle cascate ed avventurarci lungo il percorso che porta alla Circular Pool attraversando tutta la gola. Camminiamo per tre ore fino a questa giunglesca piscina naturale. Come al solito la flora e fauna australiana si fanno concorrenza; così a distogliere la nostra attenzione dal paesaggio naturale sono alcuni simpatici animaletti: una lucertola, ragni molto singolari dalle dimensioni esagerate, farfalle colorate, libellule rosse e un serpente fermo nel cammino.

Aspettato che il serpente si levasse dalla nostra strada, eravamo ormai arrivati alla Circular Pool. A prima vista sembra una pozzanghera rotonda d’acqua scura, ma è solo alzando la testa verso l’alto che davvero si capisce dove ci si trova: al centro della Terra!

Risaliamo e torniamo al campeggio costeggiando la gola dall’alto.

Terzo giorno: brividi di paura

100 chilometri per arrivare dall’altra parte del Karijini National Park evitando la strada diretta di 40 chilomentri sconsigliata ai van. È tutto rosso: strade, sassi, pozzanghere, montagne, auto e cartelli stradali. La prima tappa è l’Oxer Lookout, dove si uniscono tre gole: Joffre Gorge, Weano Gorge e Hancock Gorge.

La vista da lassù è indescrivibile. È come esser passati di lì dopo un terremoto che ha spaccato la terra in tre. In superficie alberi dai tronchi bianchi provano a scendere le ormai solite pareti di pietra rossa, mentre decine di metri più in basso ritroviamo l’acqua e di nuovo la vita. Provo una sensazione mistica. Ci sentiamo forti e pronti per scendere di nuovo lì sotto ed esplorare.

L’obbiettivo di oggi è l’Handrail Pool. Per arrivarci dobbiamo seguire un percorso di difficoltà “4 su 5”, guadare ruscelli alti fino al petto e passare attaccati con le mani a delle pareti scivolose. Sull’ultimo tratto, ragazzi, me la sono vista davvero brutta…

Rassicurato dalla gente che passa tranquilla prima di me a piedi scalzi, mi levo anche io le scarpe per non bagnarle e mi addentro nello stretto e buio passaggio che porta alla piscina. Da lì passa un rivolo d’acqua e le pietre sono fredde e scivolose, sulla sinistra c’è un corrimano di ferro impiantato nella roccia. La luce del sole passa a malapena tra le strette e alte pareti.

Arrivo all’ultimo passo prima della discesa a strapiombo di circa quattro metri sulle rocce che delimitano la piscina naturale e lì mi scivolano tutti e due i piedi. Rimango attaccato solo con le mani a quel pezzo di ferro, come nei film. Mi tiro su e faccio finta che nulla sia successo. La gambe mi tremano e continuo la discesa solo perché a questo punto mi sembra più facile che tornare indietro. Solo dopo pochi minuti mi rendo realmente conto del rischio corso.

Però la piscina naturale che ho davanti ai miei occhi è un’immagine che non ha prezzo. Sarà stata di venti metri di diametro, circondata da pareti di pietra rossa alte una trentina e il cielo si vedeva solo dallo scorcio che queste lasciavano apparire. Tutto era all’ombra e si respirava magia nell’aria.

Facciamo il bagno nelle sue fredde acque e un altri visitatore inizia a suonare una melodia con un flauto. Ho ancora adesso i brividi a pensarci. Un’immagine e un suono indelebile per la mia memoria. La risalita la vivo con immensa paura dopo l’accaduto in precedenza, con le gambe molli e il cuore in gola.

Solo ora presto attenzione al cartello che dà il benvenuto alla gola e avverte: fatalities have occured in this place. Mi sono sentito fortunato e stupido.

La sera ordiniamo da mangiare nel camping e durante l’attesa sfogliamo un repertorio di vecchi articoli di giornale che parlano di numerosi episodi avvenuti nelle gole del Karijini, alcuni a buon fine e altri no. Spesso accade che si debba passare la notte laggiù nelle gole, con il rischio di ipotermia. Ci facciamo una doccia fredda perché calda non c’è, dopo quattro giorni senza possibilità di lavarci.

Quarto giorno: spettacolo nell’anfiteatro

“Non mi farete scendere in nessuna gola oggi!”

È la prima cosa detta stamattina, ancor prima del buongiorno. E invece dopo un paio d’ore mi ritrovo attaccato con le mani e con i piedi a delle rocce a strapiombo, scivolose e strette. In questi momenti la curiosità è per me come la forza di gravità. Non importa quanto sia impaurito, non riesco proprio a rimanere in superficie.

Arrivato giù manca da guadare un fiume prima di trovare un anfiteatro naturale, con dell’acqua che scende i suoi gradoni e forma l’ennesima piscina naturale, in questo caso baciata dal sole. Questa volta non mi bagno, decido di sedermi e godermi lo spettacolo, come in un vero anfiteatro. Che meraviglia! Ecco perché la gente rischia l’osso del collo per arrivare in questi luoghi. Quando risalgo in superficie bacio la terra pietrosa.

Il Karijini mi ha regalato emozioni che forse non avevo mai provato, stare al centro della terra, nella mani di madre natura, in balia degli eventi, circondato da un colore rosso fuoco in ogni istante del giorno e della notte. Ci piacerebbe rimanere un giorno in più e godere di quest’atmosfera surreale, ma ci hanno parlato bene di Broome, e moriamo dalla voglia di raggiungerla!

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