Gerusalemme città contesa: la narrazione palestinese

Alla fine di aprile di quest’anno Nena News, agenzia di stampa focalizzata sul Medio Oriente, ha offerto la possibilità a me e a un gruppo di giornalisti di partecipare a un percorso conoscitivo per misurare con i nostri passi la reale entità dell’occupazione della Palestina. Un percorso che ha avuto alcuni dei suoi momenti più intensi a Hebron, in Cisgiordania, e a Kerem Shalom, un kibbutz a situato a pochi metri dal confine con la Striscia di Gaza, ma che non poteva mancare di esplorare anche il complesso e tragico stallo costituito dalla ripartizione di Gerusalemme.

Non ho alcuna intenzione di nascondere che sull’occupazione e sull’espansione coloniale israeliana ho delle idee ben precise, così come sul conflitto in corso dal 1948, anno in cui furono distrutti centinaia di villaggi palestinesi provocando l’esodo di 700.000 persone, evento ancora noto nel mondo arabo come al-Nakba, “la Catastrofe”, e commemorato ogni 15 maggio.

Il seminario di Nena News, pur cercando di abbracciare quante più narrazioni il poco tempo a nostra disposizione ci consentisse di esplorare, cercava di dare ampio spazio alle voci di chi il conflitto lo subisce e raramente ottiene la possibilità di raccontarlo. Non ci ha stupiti perciò il trovare ad attenderci alle porte della città vecchia una guida palestinese, un’abitante di Gerusalemme che nel suo lavoro tenta di offrire una visione più chiara e nitida delle sofferenze a cui da generazioni sono sottoposti i musulmani della Palestina e, in particolare, della capitale contesa.

Gerusalemme, Palestina - Seminario Nena News

Nel 1967, dopo la Guerra dei Sei Giorni, Israele occupa Gerusalemme e stravolge lo status legale dei palestinesi che abitano in città. Improvvisamente si trovano ad essere cittadini dello stato ebraico, ma senza diritto di cittadinanza né di nazionalità.

I palestinesi che abitano la città contesa sono apolidi, hanno solo un permesso di residenza, ma se si allontanano per più di un certo periodo perdono anche quello. Molti vengono banditi dalla città in cui sono nati perché non possono provare le loro radici, o vengono accusati di non trascorrere la loro vita pienamente a Gerusalemme.

La chiamano “Absentee Law”: legge dell’assenza, o in altre parole la legge sulla perdita del diritto di residenza. La persona, anche se tornata ad essere presente dopo un’assenza spesso dovuta a sofferenze e sacrifici, è assente secondo la legge perché si è allontanata dalla sua proprietà.

Sulle case occupate dagli israeliani sventolano le bandiere di Israele, ma appendere una bandiera palestinese è un gesto punito dalla legge imposta dagli occupanti. “Motivi di sicurezza”, la scusa universale con cui tolgono libertà di parola, di espressione, di movimento.

In una situazione di occupazione è vietato vendere le proprie case agli occupanti. Così i palestinesi non possono neanche vendere agli israeliani e andarsene via in cerca di una vita migliore.

Per rinnovare casa occorre passare da tre uffici. Il primo è quello responsabile alla gestione scoperte di carattere archeologico: viene mandato un ispettore (pagato dal richiedente) per verificare la presenza di reperti storici. Se trova qualcosa, la casa viene confiscata, ma siamo a Gerusalemme, è ovvio che basta fare una buca ovunque per tirare fuori vasi antichi, statue, manufatti… Drammatica è anche l’esperienza di chi richiede di edificare (o riscostruire dalle macerie) una casa nuova: l’ultimo permesso per costruire una casa palestinese a Gerusalemme è stato concesso nel 1980. Inoltre, come ci ricorda la nostra guida, al danno si aggiunge anche la beffa, visto che solo il 35 per cento delle tasse raccolte dai palestinesi viene effettivamente utilizzato per i bisogni dei palestinesi.

Nell’area araba crepe, sporcizia, ambulanti e fatiscenza dominano i paesaggi sub-urbani che si snodano tra i vicoli. Appena si supera il confine con l’area ebraica la situazione cambia radicalmente: strade pulite, case solide, ordine. Il quartiere ebraico è stato edificato sulle macerie di due quartieri arabi, gli anziani ancora raccontano di aver visto i bulldozer passare sopra i cadaveri del conflitto del 1967.

Lungo una ripida discesa si arriva al quartiere Silwan. Anche se non possono, i coloni si insinuano tra le case dei palestinesi. Spesso li intimoriscono con minacce e violenze, a volte seguono offerte di denaro e qualche volta viene impiegato un prestanome per acquistare la proprietà aggirando la legge che vieta agli israeliani di acquistare proprietà immobiliari e terreni dai palestinesi.

Arriviamo al quartiere al-Bustan, al Community Center al-Bustan Association. Il centro offre attività educative e socializzanti per circa 200 bambini, oltre a disporre di un supporto psico-sociale completo di specialisti qualificati. L’unico posto dove bambini e ragazzi possono incontrarsi e fare qualcosa, talvolta non se ne vogliono più andare a casa e chiedono di restare ad aiutare in qualche modo.

I giovani fondatori sono stati arrestati più volte, chiunque lotti per i suoi diritti è un criminale. Kutaba, che ci accompagna nel corso della nostra visita, è finito in galera sette volte entro i suoi 15 anni. A volte si ha paura persino di rispondere al cellulare in arabo.

Community Center al-Bustan Association - Gerusalemme

Decine di case sono a rischio di demolizione con la scusa di dover ripristinare un luogo sacro, un parco, o l’antica residenza di un rabbino ormai dimenticato. Le minacce delle istituzioni vengono corrisposte con scritte e dipinti sui muri. La popolazione resiste – cos’altro potrebbe fare? – ma l’eventualità di rimanere senza un tetto è una minaccia ricorrente che accompagna i giovani per tutta la loro vita e ne esacerba gli animi fino allo sfociare di atti tragici e sconsiderati.

Anche questa è Gerusalemme, capitale di nessuno, dimora spirituale di tutti.

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