Palestina, intervista con Nassar Ibrahim: il conflitto, l’occupazione e la resistenza

Ormai sei mesi fa, al seguito della delegazione dell’agenzia di stampa Nena News, indagavo il conflitto israelo-palestinese muovendomi tra Hebron e Gerusalemme, tra i centri per rifugiati palestinesi e i kibbutz israeliani. E addentrandomi nei racconti di attivisti, giornalisti e politicanti, protagonisti a torto o a ragione di una tragedia umanitaria che dopo quasi settant’anni non accenna a placarsi. A offrirci una delle testimonianze più significative fu Nassar Ibrahim, uno degli autori storici della narrazione palestinese del conflitto.

Oltre ad essere scrittore e giornalista, Nassar Ibrahim è attualmente direttore del Jadal Center for Culture and Development a Beit Sahour (Cisgiordania), nonchè uno dei direttori dell’Alternative Information Center, organizzazione non governativa dedicata a diffondere e argomentare la narrazione dei soprusi subiti dal popolo palestinese.

Ibrahim è nato a Beit Sahour nel 1953 e ha conseguito la laurea in sociologia e un diploma in sociologia del lavoro all’università libanese a Beirut. Ha lavorato come capo editore per il giornale Al Hadaf di Damasco. È autore di “The Role of Palestinian Workers in the Israeli Economy”, pubblicato a Damasco nel 1997. Nel 2003 è stata pubblicata in Palestina la sua prima collezione di racconti dal titolo “Assassinio di un cane”. Nello stesso anno ha pubblicato assieme a Majed Nasser “Small Dreams”, una collezione di 14 racconti brevi, tradotta in inglese, tedesco e spagnolo. È sposato con Najma e ha due figlie.

Abbiamo incontrato Nassar Ibrahim al Jadal Center for Culture and Development. Ecco che cosa ci ha raccontato.

Vi chiedo di non giudicare le mie parole basandovi sul contesto che avete acquisito in Italia. Probabilmente abbiamo gli stessi valori, ma io affronto questi problemi da molto tempo. La Primavera Araba ha fatto nascere molte speranze, ma alla fine ha portato a Daesh [termine arabo per indicare ISIS], a nuova oppressione, nuovi regimi dittatoriali.

Le origini del conflitto israelo-palestinese…

La prima cosa da chiarire è che il conflitto israelo-palestinese è un conflitto globale, non regionale. La creazione di Israele è parte del disegno colonialista europeo. Il suo motivo non è la sofferenza degli Ebrei, ma la strategia coloniale delle potenze occidentali.

Nel 1907 la conferenza [coloniale dell’impero britannico] a Londra ha avuto come tema la strategia dei governi europei in Medio Oriente. Il rapporto di Campbell-Bannerman [Henry, neo primo ministro dal 1906] mise in luce quattro punti: dividere il mondo arabo; consolidare le colonie; creare regimi collaborazionisti; creare uno stato cuscinetto tra i territori amministrati dagli arabi. Nel 1916, con l’accordo Sykes-Picot, vengono stabiliti da Francia e Regno Unito i confini del mondo arabo. La dichiarazione di Balfour del 2 novembre 1917 sancisce l’impegno verso la creazione di Israele. Nel 1920 ha inizio il mandato britannico della Palestina.

Perché? La scoperta del petrolio e la difesa dei confini e degli interessi europei. Ma per ottenere un sostegno continuo da parte dell’opinione pubblica viene usata come giustificazione la religione. Il condizionamento della società cristiana si basa su due concetti: una Terra Promessa per gli Ebrei e l’idea che la Palestina sia disabitata. Diritto internazionale contro diritto divino. Quest’ultimo porta all’esilio dei Palestinesi. Ma la Palestina era abitata ancor prima dell’arrivo degli Ebrei.

Giudaismo e sionismo…

Israele, Ebrei e sionisti non sono la stessa cosa. C’è un tentativo in atto di far coincidere tutti gli Ebrei con Israele. Ma il conflitto in corso non è contro gli Ebrei. Antisemitismo e questione ebraica sono problemi europei, non del mondo arabo. E poi c’è l’Olocausto, divenuto un’industria culturale per giustificare l’occupazione e il colonialismo. Ci sono paesi come la Germania e la Francia che puniscono chi mette in discussione le verità ufficiali dell’Olocausto, ma la limitazione della libertà di espressione e di pensiero è un pericolo. Occorre poter discutere per non ripetere gli stessi errori.

L’occupazione israeliana della Palestina…

Il sionismo nega l’esistenza del popolo palestinese, e lo ribadisce con strumenti molto forti: demolizioni ed esilio dei Palestinesi; durata indeterminata e conseguente condizionamento psicologico dei Palestinesi; controllo economico e culturale; dipendenza sociale ed economica da Israele; creazione di classi diversificate nella società palestinese. Si tratta di un’occupazione coloniale.

Il muro alzato in Cisgiordania [barriera di separazione israeliana o muro della vergogna] è alto 12 metri [otto secondo le fonti più diffuse]. Il Muro di Berlino era alto quattro metri. Non si tratta solo di un muro di cemento, in alcuni tratti è un sistema di barriere elettrificate che occupano ancora più spazio del muro in cemento.

Con l’occupazione nasce una classe palestinese che comincia a cooperare con Israele. È il caso dell’Autorità Palestinese, il cui corso di governo ha portato a scendere sempre più a compromessi. Si calcola che gli investimenti palestinesi in Israele ammontino a circa 3,5 miliardi di dollari l’anno.

L’occupazione è anche culturale e sta trasformando costumi e tradizioni palestinesi – come gli abiti, la cucina – in abitudini israeliane. Persino la kefiah portata da Arafat sulla testa ora è oggetto di una mercificazione israeliana, non nei colori tradizionali bianco e nero ma nei colori di Israele, bianco e blu.

La resistenza palestinese…

Dopo l’11 settembre qualunque atto di resistenza è stato bollato come terrorismo. Anche gli atti non violenti ora sono chiamato “Palestinian non-violent terror actions”. Il processo di pace? Semplicemente non esiste. Se tutto il mondo è in favore della pace che cosa lo ferma dall’ottenerla. La realtà è che non c’è nessun processo di pace, ma solo il tentativo da parte di Israele di imporre le sue condizioni, senza alcun riconoscimento dei diritti nazionali palestinesi.

Chi è il folle allora? Lo schiavo [che cerca di ottenere la sua libertà, a volte con la violenza] o lo schiavista?

Perché siete a favore del movimento di liberazione della Palestina? Per il principio di autodeterminazione… ok… ma l’altro motivo che deve unirci è la ricerca del bene comune. Quello che è bene per noi è bene anche per voi. Non esiste più una nazione isolata che non abbia alcuna influenza sul resto del mondo.

Soluzioni e non-soluzioni…

I confini del 1947, poi del 1967, fino alla totale espansione negli anni 2000… La soluzione a due stati non è più possibile, ce l’hanno tolta. Ormai c’è solo uno stato, ma deve garantire uguali diritti a tutti. Noi continueremo a resistere, perché non abbiamo altra scelta.

Siamo in crisi perché non c’è alcuna strategia. Fatah e Hamas sono più impegnati a mantenere la situazione attuale che a liberare i Palestinesi. Hamas si proponeva come un’alternativa alla corruzione di Fatah, ma sembra comportarsi allo stesso modo. Le forze di polizia dell’Autorità Palestinese fanno gli interessi di Israele. Il trattato di Oslo governa ogni aspetto della vita dei Palestinesi, che non possono nemmeno scavare un pozzo per l’acqua.

Ma oggi il contesto internazionale è cambiato. Non ci sono solo gli USA a influenzare il conflitto. C’è il ritorno della Russia, c’è il Sud America, la Cina… ma il movimento di liberazione non riesce a fare uso dei possibili alleati.

Non c’è aiuto senza interesse. Non esiste un’economia isolata. Noi non siamo contro gli interessi di nessuno, ma chiediamo il rispetto dei nostri diritti. Una cosa è venire a comprare il petrolio, un’altra è rubarlo e poi arricchire con i proventi le bullshit families dell’Arabia Saudita. Non so chi starà con noi fino alla fine.

E la Striscia di Gaza?

Non si può considerare Gaza in modo isolato. Solo un movimento popolare collettivo può cambiare le cose. 1,5 milioni di Palestinesi [ufficialmente 1,8] sotto assedio… ma se reagiscono sono dei terroristi! E la comunità internazionale non fa nulla, continua a sostenere Israele. Una nazione di 8 milioni di abitanti con un PIL di 260 milioni di dollari. Da dove vengono quei soldi? Sono aiuti internazionali. Senza pressione dei paesi alleati non ci sarà mai cambiamento.

Per saperne di più sulla diaspora palestinese e sulla situazione dei rifugiati palestinesi: BADIL – Resource Center For Palestinian Residency & Refugee Rights

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