Viaggiare con il proprio mezzo è sempre difficile, sopratutto alla frontiera

Viaggiare con il proprio mezzo è sempre difficile. Possono capitare intoppi di vario genere: strade particolarmente dissestate, problemi meccanici, difficoltà di rifornimento, sassolini sparati da altre vetture che possono rompere il parabrezza. E poi ci sono le frontiere. Per chi è abituato a muoversi nell’ambito dei Paesi europei, il problema non sussiste più, ma se si comincia ad allontanarsi un po’ iniziano i problemi.

Si possono trovare code interminabili motivate da nient’altro che cercare di creare problemi a poveri emigranti con auto cariche di oggetti di ogni genere e provenienza, si può incappare nel doganiere che vi dice che avete troppe stecche di sigarette sperando di sequestrarne una per sé, non sapendo che chi ha di fronte conosce bene le regole doganali. C’è l’eventualità di trovare l’impiegato che, nell’attesa di far passare il proprio turno, si diverte sadicamente a rallentare la vostra pratica.

Infine ci si può ritrovare in una frontiera, ad un’altitudine di 2000 metri, costituita da qualche container e qualche pezzo di logora moquette. Come a Bavra, sul confine tra Georgia ed Armenia.

Quando, al di là della sbarra, vedo i poliziotti armeni non posso credere ai miei occhi, sembrano i ranger del Parco di Yollowstone, mimetiche con motivi che da lontano sembrano floreali con un cappello in stoffa della stessa fantasia in stile cow boy. Una volta entrati si tratta di fare il visto. L’addetto è un signore di mezz’età che, non si sa per quale motivo, ha da subito iniziato a guardarci di traverso. Certo è che noi, in quattro persone con una moto ed un fuoristrada, non passiamo inosservati. Sono le 7 di sera che, all’improvviso, si trasformano nelle 9 perché qui siamo 2 avanti rispetto alla Turchia. Siamo stanchi e non ci rimane altro che essere allegri e forse troppo rumorosi per il nostro amico.

Con estrema lentezza guarda i passaporti uno per uno, ci fa capire a gesti (anche se sostiene di parlare italiano conoscendo come uniche parole collegate all’Italia “Adriano Celentano”) che uno di noi deve andare a cambiare i soldi in dram.

La pratica dei visti si prolunga per circa un’ora e mezza, durante la quale cerchiamo con difficoltà di non farci arrestare anche quando, io e l’altra donna del gruppo, sentiamo uno dei nostri nell’altra stanza pronunciare un “Ti amo” molto sentito. A parte credere che stesse cercando di corrompere il poliziotto con il romanticismo, scopriamo dopo che gli era stata chiesta la traduzione in italiano di “I love you”; evidentemente il nostro amico vuole incrementare il suo forbito vocabolario.

Con la speranza di uscire in fretta da questo luogo assurdo, andiamo nell’ufficio dei doganieri. Ci siamo solo noi ed un paio di camion turchi che, con ogni probabilità, vedranno l’uscita solo con la luce del mattino seguente.

Con un solo dito l’impiegato inizia a digitare sulla tastiera ed ogni poco si ferma perché, almeno così cerca di farci credere, si è bloccata la connessione con il server nella Capitale. Dopo circa due ore di permanenza davanti allo sportello e, notando il nostro nervosismo, con le dita fa un gesto. Sta chiedendo soldi.

Noi in tutta risposta, che a forza di passare frontiere qualcosa abbiamo imparato, decidiamo di metterci a cucinare lì, nel piazzale della dogana. In tutta calma preparo la cena ed andiamo a mangiare proprio nel suo ufficio…tanto per fargli capire che noi non abbiamo fretta, possiamo rimanere lì anche fino al giorno seguente. L’attesa si è protratta ancora per un po’ ma alla fine e a stomaco pieno, siamo usciti orgogliosi di non aver ceduto alle sue illecite richieste.

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