La triste esistenza dei lavoratori di Dubai

Oggi ho parcheggiato sulla sabbia. Qui tutto è su sabbia, è evidente per quanto cerchino di camuffarlo con costruzioni folli o con del verde artificiale che costa alla salute del pianeta…è evidente perchè ovunque trovi formiche; innocue e pulite ma parecchio invadenti. Le formiche, lavorano fino allo stremo, sopportano pesi e ritmi incessanti, si muovono in file infinite e vivono in basso, ignorate e a volte schiacciate.

Come i workers, anche loro sono dappertutto, questa città è costruita con le loro mani e il loro sudore pagati a buon mercato. Gli operai indiani e pakistani, sfuggiti alla fame o alla guerra arrivano a flotte diretti a morte certa, se non fisica, dell’anima. Ogni tanto qualcuno vola giù da una di quelle torri luccicanti e lussuose. Non si sa se per incidente o per volontà perchè una vita così non la vuole fare nessuno, neanche gli”ultimi”.

Ieri erano seduti sui marciapiedi nella luce pallida del tramonto, al termine di una giornata identica alle precedenti fatta di fatiche e stenti,e così all’infinito. Sotto un sole che non ha pietà,in una terra che non è la loro,che non è per loro. Aspettavano l’autobus che li riporterà nelle loro topaie dove vivono in 6 famiglie o più. Sono scarni, piccoli, dentro le loro tutine gialle o blu, coi caschi a proteggergli la testa,l’unica cosa che non è richiesta. Sono trattati come animali non pensanti, ammaestrati ad eseguire ordini. Sarebbe stata una bella foto, scenografica. Se non fossero persone, stanche, sporche. No, l’umiliazione di essere immortalati come fenomeni da baraccone in un flash, non gliel’ho voluta regalare. Non ho potuto. Certe cose ti entrano negli occhi, le memorizzi, le rivedi ancora e ancora nella loro atrocità. La natura, umana e non, riesce a regalare attimi di estrema bellezza ma di infinita crudeltà… è inquietante.

lavoratori di Dubai

Qui non serve l’orologio. Ovunque sei, per strada, in un mall, ad un certo punto una voce si leva sulle altre con un altoparlante e non puoi sbagliare. It’s 7 o’clock é il richiamo alla preghiera. Il ragazzo indiano qui in ufficio si leva le scarpe,stende il tappeto verso la mecca e dedica 5 minuti al suo dio e alla salvezza della sua anima. Fa dei gesti, prega. Poi si rimette le scarpe e torna al lavoro. L’ho visto fare ovunque,addirittura per strada. In mezzo a una fila di macchine un uomo pregava sul suo tappeto poi lo ha rimesso in auto e via. Mi chiedo se 5 minuti possano bastare a mettersi in contatto con una divinità o forse è così che dovrebbe essere: un rito quotidiano senza fronzoli. Niente altari. Solo dio e loro, fedeli. Il venerdì invece è prevista la visita alla moschea.Tutti vestiti uguali, perchè tutti sono uguali davanti a dio. La cosa strana è il silenzio che si crea, il mondo rallenta al suono di quella voce spesso gracchiante. Anche per strada, nel traffico, i rumori si attutiscono…. è incredibile, niente clacson, motori, voci. Poi, in un attimo, tutto riprende. Surreale.

La musica mi accompagna nelle mie passeggiate solitarie sotto il sole basso e pallido del tramonto (qui si perdono tutte le sfumature del sole) Con la faccia contro il soffio caldo e insistente del vento,non c’è vittoria. Ti bagna, ti prosciuga ti sfinisce. Però quando la luna si alza e le luci si abbassano ti avvolge lieve,come un tessuto caldo e morbido. Qui la puoi toccare l’aria. Può essere acqua sul tuo viso accaldato, sabbia che rotola sulla strada, afa che pesa addosso e fa rallentare il passo o inganno, quando l’asfalto sembra bagnato e invece è il sole che gioca con lei, calda, a fare i trucchetti. Per toglierti da quella luce abbagliante e quel calore assurdo ti dico che ora sono a casa, al fresco, con un gustoso succo d’ananas. Fammi sentire un pò del tuo rumore.

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