Diario di viaggio a Malta

Abakebabra, leggo su un’insegna di un fast-food arabo. Sorrido. Sorrido perché sono felice di essere qui, di essere partita alla fine. Già all’uscita dell’aeroporto avevo capito che mi sarebbe piaciuta quest’isola.

Malta non era mai entrata nei miei pensieri, mi dava l’idea di un posto un po’ spoglio, poco attraente, un po’ il culo d’Europa, laggiù, senza grande rilievo internazionale, se non per le imbarcazioni cariche d’immigrati cacciate in malo modo. Un posto da vacanza estiva per studenti o famigliole. Sono contenta di essermi sbagliata.

I maltesi non si considerano affatto “il culo d’Europa”, e il loro porto è uno scalo importante, commerciale e turistico. Appena arrivata, sono stata avvolta da un vento forte, ma non sentivo freddo, che bella sensazione essere sbattuti come cenci da aria calda. È una terra brulla, arsa dal sole, fatta di rocce, e costruita con rocce, per lo più gialle, ricavate dalle scogliere sul mare. Sono su un autobus sgangherato del secolo scorso, strapieno, che sferraglia lasciando dietro di sé una nube puzzolente di benzina rossa, quella verde non è ancora arrivata. Non sono molte le marmitte catalitiche, però la borsa della spesa è un sacchetto di carta o di tela, gesto ecologico avanzato.

Non può dirsi lo stesso per il diritto matrimoniale, si discute in queste settimane l’introduzione del divorzio; è già possibile separarsi ma questo passo in più non trova un largo consenso, contrasta con lo spirito religioso degli isolani. È una realtà rurale e di pescatori, sembra di stare nella Sicilia degli anni ’50.

Penso, è bella. Sono partita senza cuffie, col desiderio di essere presente, aperta e comunicativa, di avere orecchie libere per ascoltare, per immergermi fino in fondo. Mi nutro di silenzi e parole sussurrate come fossero fruscii, le parole dette a mezza voce hanno un potere calmante e ristoratore, come in chiesa, dove ammiro ritratti di donne o sante di altre epoche, con le loro gonne ampie a coprire le caviglie, il viso pulito e i capelli raccolti in modo austero e sobrio. Suscitano in me invidia; se ne stanno in disparte, e senza affanno ricevono amore e devozione.

Non si potrebbe tornare indietro? Non posso fare a meno di notare un forte senso civico e un atteggiamento di rispetto tra le persone; forse costrette a vicinanza forzata sui mezzi pubblici, hanno imparato a non pestarsi i piedi. Sono rugosi, come le facciate scrostate dei loro palazzi, colpevoli il sole e il vento perenni. Novembre è perfetto, non c’è la calura estiva che qui deve’essere terribile, vista la scarsa vegetazione a far da cappello.

Non assomiglia a nessuna città visitata. Ricorda vagamente Palermo, per il colore giallo degli edifici e i cortili interni con palme; e Deira, la parte vecchia di Dubai, per l’aspetto polveroso e l’atmosfera nascosta, restia, chiusa. I balconi richiamano le finestre dei palazzi in India, costruiti con finte facciate per celare i volti delle principesse. Ogni dominazione ha lasciato segni visibili; dagli inglesi hanno ereditato la guida a destra, le cabine telefoniche rosse e le buche delle lettere a forma di estintore, le divise della scuola e i cimiteri. I Britannici erano poco interessati a questa terra arida, cresciuta, così come i suoi abitanti, libera, autoctona, come una sterpaglia, come i capelli messi in disordine dal vento che regala sorrisi.

Dell’italiano restano parole folkloristiche come “ciao, bello, madonna e simpatico”, le senti spuntare nel mezzo di una frase e sono gli unici vocaboli che riesci a cogliere. Anche il cibo del vecchio stivale ha macchiato le tavole maltesi, con pasta, pizza, gelato e cappuccini. Il nuovo non sostituisce il vecchio, ci s’incrosta sopra e si va avanti alla vecchia maniera, arrancando in salita come gli autobus vecchi di cinquant’anni, pieni di ruggine e grasso per motori, con radio che passano musiche italiane e madonnine che ciondolano accanto al conducente.

Tutto si mescola; lingue, sapori e architetture. Ne esce una mistura fresca e speziata che profuma di tradizione, decisamente forte al palato. Il vero melting-pot vive nei ragazzi, che emergono dalla polvere dei palazzi fatiscenti in pietra e dal grasso tipico del porto. Sono come tutti i giovani europei, sembrano usciti dalla fabbrica di MTV; non sembrano neanche di qui, così diversi dal contesto umile, familiare e dal sapore antico.

Vestiti alla moda inglese, come pop star un po’ succinte e piene di lustrini e borchie, pagano cinquanta centesimi per salire su autobus stracolmi in lamiera; le macchine scassate con carrozzerie bicolori, sono un lusso per pochi. I maltesi sono ruvidi di primo acchito, come il calcare dei loro muri, ma è solo apparenza.

Questi isolani diventano cordiali, disponibili e molto pazienti verso i turisti, senza approfittarne. Tra loro, nel loro dialetto arabeggiante, parlano, anche se estranei; i passanti sorridono e gli autisti rispondono con un colpo di clacson, se a malapena si riconoscono. Sarà a causa di tutti i dolci che mangiano? Cassatella, pastizzela, e svariate prelibatezze fatte con pasta di mandorle e ricoperte di glassa, oppure crepes, bignè e donuts ripieni di fragola, panna o cioccolato, ma anche biscotti farciti con fichi, cannella, mela e uvetta. Ne mangiano sempre: a colazione, prima di pranzo, a fine pasto, come spuntino, dopo cena.

Non ci sono freni, regole; i dessert sono proposti sempre, al tavolo o a portar via e costano davvero poco. Chi mangia dolci in modo così sfacciato e senza giustificazioni o sensi di colpa; ama la vita. I ritmi sono lenti, la vita è semplice, come una volta; è facile vedere donne e uomini lavorare nei campi o tirar su le reti da piccole imbarcazioni colorate, dotate di occhi di Osiride. Non c’è sfarzo, superbia, forse perché sarebbe peccato e le persone qui, sono molto credenti. La religione permea la società, accanto alla porta di casa il più delle volte si trovano statuine o effigi sacre mentre le parabole satellitari invadono i tetti. È bello stare qui, vivere lentamente e trovare pace e piacere nelle piccole cose.

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