USA nord-orientali: viaggio oltre le barricate

“L’importanza sia nel tuo sguardo non nella cosa guardata” (Andrè Gide): nasce con questa sfumatura il viaggio verso alcune città degli Stati Uniti.

Dopo un gelido inverno dedicato allo studio, per raggiungere il giorno della laurea, si parte: i WYW sono pronti nell’affrontare il viaggio nelle metropoli più conosciute degli Stati Uniti orientali.

L’intento è di provare una sensazione simile a quello dei pionieri, che vedendo questa immensa terra non si sentirono più a casa, ma addirittura in un altro mondo, Il Nuovo Mondo.

Se si pensa all’America modello perfetto, per così dire, in tutte le sue forme innovative e tecnologiche, che divenne matrice per molte città occidentali, sembra cosa impossibile ai WYW.

Oltretutto avendo una “deformazione professionale” verso il fragile sistema della natura e del tempo, i due avrebbero volentieri visto le campagne Americane piuttosto che le sue città. Infatti questo viaggio nasce come una sfida verso se stessi e i propri ideali, e verso gli stereotipi portati non solo dai media (“America patria di fast food”), ma anche dagli stessi turisti, sia che essi siano moderni o responsabili.

Due tipi di turismo contrapposti, ma con la stessa problematica: rischiare di innalzare barriere. Queste ultime divengono un peso eccessivo verso un paese o verso un tipo di società, influenzando così il giudizio complessivo su di esso.

Scegliamo così di percorre città come Boston, New York, Washington, Chicago e vedere anche qualche città minore Buffalo, Milwaukee e New Haven. Il tutto muovendoci in treno, sentendo questa avventura ad ogni nostro spostamento, potendo sbirciare qua e là il paesaggio che cambia, di modo che il nostro passaggio da una città all’altra non diventi un teletrasporto inattivo.

Uscimmo da questa esperienza dopo un mese e mezzo di viaggio, il tutto si concluse con stupore e meraviglia delle cose scoperte e viste. Ogni stereotipo si fece lontano più che mai, in molte occasioni. Tra queste ricordiamo piacevolmente il primo incontro con un Grattacielo. Diario di bordo:

“ E mentre ci perdevamo tra vie turistiche e vie residenziali, eccoli lì, silenziosi e incastrati nel cemento come alberi nella terra, fieri e dritti sovrastano la città: i Grattacieli. Non avrei mai creduto che un simile edificio potesse mai farci sospendere il fiato, creò stupore e sorpresa nelle nostri menti. Credevo fosse leggenda che tali palazzi potessero ancora scombussolare i cuori di ragazzi occidentali che hanno vissuto nel mezzo degli anni tecnologici…” “…Eravamo a bocca aperta e a nasi al in sù, come se fossimo per la prima volta in una città. Mi trovai ai piedi di un colosso che sembrasse giudicare la nostra ignoranza e noi a guardarlo dal basso verso all’alto in uno sguardo che non ha fine, come quando si guarda un tramonto”.

Le sorprese continuarono e dopo i temi architettonici fu la volta di quelli culinari. Siamo giunti ad un altro mito, quello tanto agognato per un cittadino italiano, la cucina “vera” contro i fast food Americani.

Dirigemmo i passi presso il Faneuil Hall Marketplace di Boston, l’edificio che in passato ospitava un gran mercato, ora sembra presentarsi come un enorme e lungo corridoio. Una sorta di sentiero di pellegrinaggio del cibo, puntinato da baracchini, ognuna con la sua specialità di diverse etnie. In quel momento non avevamo dubbi avremmo dovuto provare il piatto tipico: il Boston Chowda, una sorta di zuppa di pesce tritato, a base di astice o vongole. Un’esperienza culinaria da provare, non tanto per la presentazione, ma per l’incredibile gusto che sprigiona questa ricetta del New England. Diario di bordo:

“Fu particolare la mia gioia, nel mangiare questo piatto. Mi sembrava di camminare in punta di piedi dentro al racconto di M. Proust quando narrava delle sue amate madeleine. Un solo assaggio mi portò indietro nel tempo al ritrovo annuale del parentado veneto di mio padre, dove la portata principale era un risotto di pesce fatto dai miei zii. Dopo la loro morte nessuno più riuscì a riprodurre quel delizioso gusto, ma ora proprio qui, ritrovo quel gusto in una semplicissima zuppa servita in una ciotola di cartone”.

Tutto questo successe al di là del nostro mondo e all’interno delle convenzioni che mostrano questa terra patria di soli fast food. In realtà, la parte migliore all’interno di questo teatro culinario viene recitata nelle tavole calde, dove ogni volta si viene accolti da simpatici proprietari alla mano, che hanno solo voglia di chiacchierare con giovani stranieri, porgendo nel frattempo, per esempio, un enorme piatto di pancakes di tutti i tipi, accompagnati da una successione infinita di caffè gratuiti, che per quanto possano essere imbevibili per gli amanti dell’espresso, sono come un pretesto per continuare una conversazione interrotta dal lavoro in cucina. Un incredibile esperienza che non si esprime nel solo atto fisico di mangiare.              

Nel ritorno verso casa un’ultima riflessione rivolta alla forte multietnicità delle grandi città statunitensi: pensando a quante culture vivessero in quelle città, appena visitate, risultò incredibile il fatto che fino ad allora non l’avevamo ancora notato.

Infatti eravamo sempre negli stessi Stati Uniti di prima, ma ci trovammo a percorrere tutti i paesi del mondo e ognuno di questi con la sua cultura, dall’Asia all’Africa e dall’Europa al sud America. Questo passaggio avvenne inconsapevolmente. Un passaggio che non ci toccò nel momento stesso, per l’incredibile integrazione che queste culture hanno in queste luccicanti città.

Diario di bordo

“Adesso ricordo, il mio entusiasmo cresce sempre di più e ora sorrido come una bambina pensando alla signora afroamericana, alla donna araba e a suo marito, alla vecchia signora e alla sua nipotina di origine europea. Nelle conversazioni dirette, e altre sbirciate, con queste persone, ricordo bene il loro gesto di mostrare con orgoglio, nei lunghi discorsi tra viaggiatori di treno, una foto di famiglia con dietro uno sfondo a stelle e strisce. Tutte queste persone benché molte di loro parlassero altre lingue madri e avessero un retaggio culturale diverso dall’Americano medio, o meglio dallo Statunitense stereotipato all’interno di ogni nostra credenza, si sentivano americane in un integrazione circolare sbalorditiva, aperti a questa integrazione mantenendo la loro origine e il loro ricordo e dall’altra parte della medaglia avveniva lo stesso tipo di meccanismo”.

Se da un lato tale patriottismo potrebbe spaventare, dall’altro mi porta a sperare per l’Italia, che in modo malandato riesce tenere uniti i propri abitanti, nel desiderio di trovare un clima simile di tolleranza, che neanche nelle grande Milano si respira.

L’interruzione di questa incredibile ricerca statunitense avvenne con una valigia decisivamente più pesante di quella dell’andata, non dovuta alle folli spese che facevano molti turisti nella Grande Mela. Il nostro peso eccessivo riguardò allo stupore creato dal ribaltamento di molti stereotipi che non fanno altro che essere trasmessi di continuo. Nessuna risposta da questa ricerca, ma il senso di meraviglia che rimane sulla pelle, dovuto al nostro sguardo vergine. Se fossimo andati con un altro spirito, molto probabilmente non ci saremmo accorti delle metà delle cose che ogni persona e ogni luogo ci hanno trasmesso.

“E dunque chi l’avrebbe mai detto che ora torno a casa nella speranza di trovare un giorno a Milano un pezzo di New York”.

 

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