Dal Capo al Cairo restando con i piedi per terra #2

Prima tappa: Città del Capo, “the Mother Town”.

Il Sudafrica si presentava nella mia mente come una meravigliosa incognita tutta da scoprire. Non è esattamente l’atteggiamento da consigliare ad un aspirante viaggiatore, ma devo ammettere di essere sempre stato molto reticente riguardo all’informarmi sui posti che vado a visitare. Di solito faccio finta di cercare qualche indicazione utile sulla rete, ma poi passo rapidamente in rassegna le pagine con una mano sugli occhi e la sensazione colpevole di chi stia frugando alla ricerca dell’assassino nell’ultimo capitolo di un romanzo giallo.

Poche cose mi erano chiare prima della mia partenza: spiagge incantevoli, locali alla moda e donne bellissime. Cos’altro avrei dovuto voler sapere? Forse che il tasso di rapine e omicidi è talmente elevato che la gente del posto considera l’ipotesi di un treno notturno alla stregua di una partita alla roulette russa.

Non che me le cercassi, ma sono stato capace di mettermi quasi nei guai per almeno due volte. Dopo meno di una settimana a Città del Capo ero finito a Khayelitsha – una township, cioè un agglomerato urbano periferico dove si concentrano gli strati più poveri della popolazione – per un articolo sulle violenze ai danni della popolazione lesbo. Prima che me ne rendessi conto mi ero perso, e con la mia faccetta pallida e la borsa a tracolla non mi serviva certo un’insegna al neon per dare nell’occhio a sufficienza. Un teppista mi ha bloccato la strada e sembrava molto interessato a rivendermi la mia incolumità prima che si deteriorasse.

Qualche settimana dopo stavo andando alla stazione centrale sotto le prime luci dell’alba. Io abitavo nei sobborghi meridionali, a Wynberg, e per tornare dal centro, dove la sera si andava a fare festa nei locali di Long Street, ci mettevo circa quaranta minuti di treno. Alcuni ragazzi mi hanno circondato e, continuando a camminare insieme a me, mi hanno suggerito cosa fare per non farli desistere dal proposito di non farmi del male.

Me la sono sempre cavata, a volte alzando autorevolmente la voce, altre alzando meno autorevolmente i tacchi, trovando rifugio presso qualche autorità in divisa o in mezzo alla folla.

Altri miei colleghi occidentali sono stati meno fortunati. Il Sud Africa non scherza su queste cose. Eppure è uno dei paesi più accoglienti e festosi che mi sia capitato di incontrare sulla mia strada, l’importante è non tentare la propria sorte di notte o in aree degradate.

Anche la scelta del mezzo di trasporto è di importanza strategica. Di giorno si possono usare tranquillamente i treni e i minibus, che sono dei furgoni tipo il Volkswagen Transporter degli hippy con quattordici sedili per i passeggeri e uno per il ragazzo che vi farà il biglietto durante la corsa. L’unica controindicazione consiste nel terribile affollamento delle ore di punta, che costringe i viaggiatori ad aggrapparsi alle porte del treno in movimento o a mirabolanti contorsioni per fare posto a tutti sui minibus.

Durante la notte, invece, rimangono solo i taxi, con il tassametro se regolari e a contrattazione quelli in nero. Però costicchiano, perciò si rimane tentati dal primo treno del mattino – alle 5 – o dall’ultimo minibus della notte – alle 11. In entrambi i casi, non sempre una scelta a priva di incontri spiacevoli.

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