Viaggio dei sensi a Calcutta, città della gioia

Ero arrivato a Calcutta – oggi ribattezzata ufficialmente Kolkata – risalendo dal Golfo del Bengala in treno, un viaggio di 16 ore sulle fatiscenti ferrovie indiane avvolto nel caldo e nell’umidità dell’incipiente stagione delle piogge. La capitale del Bengala Occidentale è nota come “la città della gioia”, ma io temevo che senza una guida né alcun conoscente mi sarei perso tra la folla senza nemmeno sfiorare le attrazioni della città.

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Sono salito su un taxi senza finestrini e mi sono fatto portare a Chowringhee, il cuore pulsante della città, dove si trovano gli alberghi più economici e il “New Market”. Ad affittarmi la camera è stato un ometto sempre sorridente, con cui non sono mai riuscito a scambiare una parola in una lingua comprensibile ad entrambi. Una stanza larga con un’ampia finestra (rotta) che sembrava appena sfuggita ad un incendio devastante. Mi piaceva.

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Ben presto ho capito che il quartiere in cui alloggiavo sarebbe stato anche il mio principale ristorante: l’offerta di cibo dalle bancarelle era ottima e molto variegata, e io per fortuna non ho mai avuto lo stomaco debole: samosa, pesce fritto, riso e montone, le onnipresenti dosa, i deliziosi dolcetti di marzapane decorati con oro e argento… Ho anche capito che l’unico modo attraverso cui sarei potuto giungere all’essenza di questa città era perdermi tra l’immenso mercato dislocato per le strade. Così ogni giorno camminavo quasi senza meta, dopo aver vagamente imparato il nome di uno o due templi o monumenti che avrebbero almeno dato un senso al mio girovagare. Puntualmente mi perdevo, fermavo un taxi che tentava di defraudarmi sul prezzo della corsa, restavo a urlare per un quarto d’ora con il conducente che mi rispondeva in bengali e tornavo a casa, inutilmente fiero di aver risparmiato l’equivalente di sette o otto centesimi di euro.

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Proprio dietro Chowringhee c’era Park Street, dove invece erano posti in una diligente doppia fila i locali alla moda e i ristoranti più eleganti. Non ho fatto fatica a entrare in nessuno dei due – tristemente, la pelle bianca è il vestito più elegante che possa essere richiesto – ma era come tradire un’amante esigente. Calcutta, per quanto capricciosa, non lesinava ammiccamenti e sospiri, ma pretendeva un grosso spirito di sacrificio prima di accontentare le mie aspettative.

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In tre settimana incredibilmente vuote sono stato diverse volte al Victoria Memorial, un enorme complesso monumentale circondato da prati in stile inglese e stagni abitati da palmipedi. Odiavo l’idea di un simile spazio dedicato a quell’imperialista avvizzita, ma era un luogo idilliaco e il solo a me noto che fosse al riparo dalla soffocante folla della città. Ho visitato anche l’Indian Museum, vicino al mio albergo, ma è stato più utile come riparo dalla pioggia che per i suoi reperti storici, abbandonati senza un ordine riconoscibile in stanzette umide e buie.

Calcutta è stata soprattutto un viaggio dei sensi, tra i piatti estremamente saporiti che esaltavano le mie papille gustative, i suoni dei tamburi nei templi induisti, gli sguardi ammalianti delle ballerine nei bordelli, l’odore di hashish e mariuana – “l’erba di Ganesh” – per le strade, i rifiuti in decomposizione ad ogni angolo e le voci assordanti dei passanti, incredibilmente cordiali e proni al soccorso del viandante smarrito, ma tragicamente convinti che ripetere la stessa frase aumentando a dismisura il tono della voce sarebbe stato sufficente a farmi comprendere le indicazioni in bengali.

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