Tra vichinghi e indiani canadesi sull’isola Terranova

Estate 2006, lembo settentrionale dell’isola di Terranova (Newfoundland), Canada atlantico. È qui che, intorno all’anno Mille – cinque secoli prima di Colombo – sbarcarono i veri scopritori del Nuovo Mondo, i vichinghi del prode Leif Erikson. Per ripartire poi dopo pochi mesi, decimati da freddo, fame e incursioni indiane. Io sono sulle loro tracce, voglio sperimentare com’era l’America vergine e incontaminata delle antiche, stentate e pericolose prime esplorazioni.

Il gioco si è fatto presto duro e difficile: niente bus di linea, niente auto da noleggiare che attraversino queste immense foreste di abeti, l’unica cosa da fare è muoversi a piedi, e non è il massimo, con 15 chili di zaino in spalla. Soprattutto quando piove e batte un forte vento. Davanti a me, il Labrador… di cui il giovane ufficiale della Marina Britannica James Cook scrisse, di rientro da una perlustrazione costiera: “Incontrammo soltanto scogli e rocce e desolata solitudine per miglia e miglia… questa deve essere senza ombra di dubbio quella che Dio scelse come la terra di Caino”.

L'isola di Terranova

Ed eccola qui, the land of Cain, la intravedo tra la nebbia oltre lo stretto braccio di mare tempestoso che arditi pescherecci baschi solcavano alla ricerca di favolosi banchi di merluzzi, unica ricchezza di queste remote province. Novello Cook, decido di mollare anch’io, mi ridirigerò in un villaggio visto sulla via dell’andata, un borgo di meno di mille anime (666 all’ultimo censimento: qui non c’entra solo Caino…) chiamato Saint Lunaire–Griquet, secondo la bizzarra mescolanza di toponimi irlandesi e francobretoni tipica dell’area.

L'isola di Terranova

I miei tre giorni a Griquet saranno memorabili grazie agli abitanti locali, che fanno a gara per parlarmi o anche soltanto osservarmi da lontano. Due passi in Main Street e immancabilmente si ferma un’auto per caricarmi, con argomenti tipo: “Sai, mia sorella ti ha visto stamani, giù al molo”. Unico turista della stagione, sono una specie di autorità locale; ho anche visitato, ospite d’onore, la mostra della scuola del paese su mappe costiere e trattati di pesca del XVIII secolo. La scolaresca al completo mi contemplava riverente e ammirata. Si è avvicinato quello furbo: “Fanno quattro dollari per l’ingresso, Sir”. “Ah, sì? E come mai  alla porta c’è scritto due?” “Giusto! Ha ragione, Sir… e complimenti per la vostra vittoria ai Mondiali!”

A Terranova c’è un drink davvero speciale: l’acqua di iceberg. Insieme con la marmellata di frutti di bosco e le alci, gli iceberg sono un altro real must: non lontano da qui naufragò il Titanic, ricordate? L’acqua la vendono imbottigliata, gelida come si conviene e del tutto priva di batteri perché ricavata da ghiacci di età centenaria, costa un dollaro e quaranta invece dei sessanta centesimi dell’acqua minerale “normale”.

E da mangiare? Ok, le marmellate… ma poi? Poco distante, nella brughiera di L’Anse aux Meadows (ancora un nome mezzo francese e mezzo inglese) si celebrava una commemorazione dello sbarco vichingo. E indovinate un po’ chi era l’unico visitatore ad aggirarsi tra figuranti in costume e zanzare fameliche? Ci ho anche fatto la mia solita figura barbina: dopo un’ampia dissertazione storica personalizzata elargitami dinanzi al focolare fumoso di una capanna vichinga ricostruita, giunti al fatidico “any questions?” ho dato una risposta degna di Homer Simpson: “Sì: cosa c’è per pranzo?” Poi però ci siamo fatti un bell’hamburger al barbecue, innaffiato da un bel paio di birre, io e tutti i vichinghi, e mi hanno pure spiegato un po’ di tecniche di incursione e combattimento all’arma bianca. Il tiro a segno con l’ascia invece non l’ho voluto fare, avevo paura di uccidere qualcuno per sbaglio, eravamo pochi e va bene, ma non si sa mai…

L'isola di Terranova

Il vecchio guardiano dell’ultimo faro azionato manualmente dell’intero Nord America andrà presto in pensione, e a testimoniare i tempi andati resterà solo l’intagliatore di midollo di balena, di ascendenza inuit da parte di nonna materna. Le balene no, non le ho viste, volevano portarmici, ma quando mi sono reso conto su quale bagnarola sarei dovuto montare mi sono venute meno le gambe. Il marinaio offertosi come guida diceva: “Io ci vado a pesca tutti i giorni, con questa.” Io rispondevo terrorizzato: “Tu, ma io no.”

Secoli fa, gli indiani Innu affrontavano la transumanza delle loro mandrie di caribù con soltanto qualche pugno di tè, cucito in splendide bamboline di feltro, date ai bimbi come gioco e pegno di sopravvivenza ad un tempo. Bambini ce ne sono dieci in tutto quest’anno alla scuola elementare, e voi adesso vorrete sapere come sono le donne. La giovane padrona del grazioso ristorantino per commessi viaggiatori alla periferia del paese, che poi è anche  moglie del gestore dell’unico minimarket, è molto carina. Le altre… sfregiate dalla salsedine diaccia, a sedici anni ne dimostrano venticinque, e a venticinque, dopo lustri di tranci e pasticci di pesce fritto nel lardo, pesano più o meno 130 chili rancidi di sudore, ma non per questo sono meno intraprendenti. Non ci passano mica in tanti da queste parti…

Ripartendo dall’aeroporto – poco più di un casotto in una radura nella foresta, che fa servizio merci, posta e passeggeri insieme – una hostess gigantesca accarezzava giuliva il mio passaporto cinguettando con la parimenti enorme collega: “Wow! An itcèlian!”(inflessione yankee con chewing gum, difficile da rendere per iscritto) “Cchiò bbellle!”(questo è meno difficile, sarebbe “Ciao, bello!”, più sorriso malizioso inequivocabile) “Itcèlians are… very very rrrommèntic!”(altro inequivocabile sorriso). Qui sarei magicamente stato magrolino, bello e persino romantico. Eppure non mi dispiace andar via, chissà perché…

Dove si trova l’isola di Terranova?


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