Cartoline da Seattle: perle di un viaggio nell’America che era

Seattle, stato di Washington, costa nord-pacifica degli Stati Uniti d’America, giugno 1993. Appena disceso dai declivi bruciati dalla lava di Mount Saint Helens e dai boschi e dai prati di Takoma (oggi noto come Mount Rainier), la metropoli affollata e la skyline dei grattacieli mi fanno uno strano effetto, dopo giorni di verde e solitaria natura.

Seattle, stato di Washington

Smonto dal bus a downtown, ho appena un paio d’ore prima della coincidenza che mi porterà oltre la vicina frontiera canadese, in British Columbia. Incomincio a far mente locale, rispolverando i primi luoghi comuni che riesco a ricordare: capitale mondiale del software, quartier generale di Microsoft, santuario dell’aeronautica per via della Direzione Generale Boeing, ma anche disprezzata e vituperata città natale di Jimi Hendrix – che la lasciò appena possibile e non vi tornò mai – nonché terra del famoso e coraggioso capo indiano che disse all’esercito americano che lo aveva imprigionato: “Quando avrete terminato di distruggere fiumi, boschi e animali, allora vi accorgerete che non potete nutrirvi con il vostro denaro”.

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Tutto qua? Tutto qua. Anzi no, a ben pensarci Seattle è anche la location di quel film strappalacrime con Tom Hanks e Meg Ryan: lui separato che in un programma radiofonico notturno fa sospirare tutte le singles della città, poi incontra lei, si innamorano ma si lasciano, si ridanno appuntamento a New York in cima all’Empire State Building e infine tornano insieme come prevedibile e… In Italia il film uscì come “Insonnia d’amore”, ma in effetti il titolo originale era “Sleepless in Seattle”, insonne a Seattle. Appunto. Inquieto e preoccupato come sto per diventare io, anche se per motivi assai diversi dal sentimento amoroso.

Compro un sandwich al tacchino e mi accampo in una piccola piazza, seduto su di un muretto alla base di un grosso totem dipinto, falso omaggio ai nativi che popolavano la zona prima dell’arrivo dei bianchi. Tempo due morsi ed ecco piombarmi addosso ben altri nativi: quella che mi si para dinanzi è una pittoresca gang di Hell’s Angels debitamente motorizzati, con tanto di giubbetti di cuoio smanicati regolamentari, berretti nazi, truci tatuaggi, catene e catenacci, pantalonacci di pelle nera strizzapalle e stivaloni a punta. E facce brutte, bruttissime, manco a dirlo. Quello che sembra il capo, un energumeno dalla pelle olivastra e dai lunghi baffoni spioventi, mi fa: “Dammi il cetriolo”. Vuole la fettina che guarnisce il mio sandwich, il buongustaio. Con quella faccia, non c’è bisogno che ripeta la domanda due volte. E infatti passa subito alla richiesta successiva: “Voglio tutto il panino”. Presto accontentato anche in quella. Lo lascio piacevolmente stupito della mia disponibilità mentre, decetriolato, depaninato e spaventato come sono, comincio a sentire una vaga puzza di guai e mi allontano alla svelta, casomai volesse proseguire la conversazione con altre richieste di quelle che non puoi rifiutare.

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Provo a cambiare aria sulla terrazza belvedere che dà sulla baia, da cui si gode il magnifico scenario dei monti lontani persi un po’ nel sole un pò nella nebbia, quegli stessi magici monti dov’ero fino a ieri, sacri agli indiani e dispensatori di maestosa serenità d’animo. Ma anche qui dura poco. Un tizio stralunato e sudato, con qualche rotella fuori posto, vuole, pretende, esige che gli scatti una foto con la mia macchina fotografica. Ok, oggi sono campione di cortesia, anche perché negli immediati paraggi non c’è nessuno e non voglio proprio farlo arrabbiare. Accontentato con la foto, scarabocchia qualcosa su di un fogliolino di carta e poi me lo porge: è un nome e un indirizzo postale di Anaheim, in California. Il posto lo conosco, è il sobborgo di Los Angeles dove c’è Disneyland. Mi racconta che manca da casa senza dar notizie da oltre tre anni, ed è proprio questo il motivo della foto e del solenne incarico che intende affidarmi: al mio rientro – mi ordina gravemente –  dovrò far sviluppare e stampare quella foto, per poi imbustarla e spedirla a quell’indirizzo, che è quello di sua madre, accompagnata con un biglietto di mia mano con su scritto: “Signora, ho incontrato suo figlio a Seattle il giorno tale, le garantisco che sta bene e la manda a salutare”. Cosa che ho  effettivamente e puntualmente fatto, se non altro per quella povera donna di sua madre.

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Intanto non siamo più soli, sono capitati di qua altri due ceffi, una coppia, lui scialbo ed assente, lei riccia biondastra, stazzonata, ilare, ubriaca. E curiosa di fare la conoscenza, pensa te. Da dove vengo? Dall’Italia? “Ittèlia!  Spgghèdi! Lzzànie!”, farfuglia felice. Chissà come mai agli spaghetti e alle lasagne non ha aggiunto anche la mafia. Se fosse voluta, è un’attenzione non da poco, credetemi. In Times Square a New York c’è una catena di fast food che somministra inquietanti pizze e lasagne american style, e che come insegna sfoggia a lettere cubitali, su uno sfondo tricolore biancorossoverde, la parola “sbarro”, che è un simpatico giochino di parole tra “bar” e “sgarro”. La signora qui invece non mi dà del delinquente, mangiaspaghetti e lasagnoso sì, ma fortunatamente non picciotto. Ancora una volta l’amabilità è di casa, a Seattle. Lusingato e commosso da tante belle attenzioni, guardo l’orologio, li informo che per me è ora di andare al pullman e mi avvio alla fermata dopo aver salutato compìto – e sollevato – i miei nuovi amici.

Bye-bye Seattle, so long. Forse adesso finalmente riuscirò a rilassarmi un po’…

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