Ritorno alle origini calabresi: Civita, il nido d’aquila

Non ero più tornato a Civita da molti anni. Ci venivo sempre in vacanza da piccolo.

Civita (CS) - Calabria

Quando sono in viaggio e mi domandano da dove vengo, o dove abiti, raramente mi capita di dare due volte la stessa risposta. Di solito per tagliar corto dico rispondo con l’ultima località dove ho messo radici. Se però intercettano nelle mie parole un velo di incertezza, può capitare che mi chiedano maggiori dettagli. “Allora: sono nato in Svizzera, poi sono cresciuto a Mantova, Verona, abitavo a Londra, mi sono trasferito in Sudafrica…” Di solito dopo i primi due-tre passaggi perdono interesse e posso tornare nel mio cono d’ombra.

Dov’è casa mia? È un po’ che non mi curo di dare risposta a questa domanda. E io cosa sono? Molte cose. Come tutti, d’altronde. Sono italiano: con il mio inventario di sfighe e inettitudini, grandi speranze e brevi sprazzi di genialità, non potrei essere nient’altro. Ma esistono davvero gli italiani? Un popolo a cui è stato insegnato di essere tale solo negli ultimi 150’anni riesce troppo spesso a intuire più differenze che similitudini nel suo vasto spettro culturale. Io, di certo, sono calabrese.

La Calabria è la terra di mio padre. Se lo stivale italiano sembra proprio intento a caricare un calcio, sarebbe proprio con la Calabria che ci prenderebbe nelle chiappe. Forse lo ha già fatto. Una relazione della Commissione Antimafia del 2008 ha stabilito che la ‘Ndrangheta calabrese è l’organizzazione criminale più pericolosa al mondo. Probabilmente è un dato ancora valido. In Sicilia, Cosa Nostra aveva l’abitudine di non toccare le donne né i parenti di quelli con cui era in guerra. La ‘Ndrangheta manda i padri ad ammazzare i figli e i figli ad ammazzare i padri. La Calabria, come molte altre regioni italiane, è stata attraversata da questo strapotere mafioso per oltre cinquant’anni, e i segni che porta sono arretratezza, sottosviluppo e inedia.

Al tempo stesso la permea un fascino ruvido e calloso, come le mani dei contadini che ogni mattina si alzano all’alba per raccogliere fichi e olive, o come quelle dei muratori che lavorano nei cantieri d’estate quando fuori ci sono quarantacinque gradi all’ombra. Una bellezza aspra come la sua terra, che dopo i primi caldi di maggio comincia a diventare dura e secca come il granito, mentre le foglie degli alberi e i fili d’erba si ingialliscono sotto il sole, tanto che se non ci fossi venuto in passato d’autunno, quando sono ancora verdi, avrei creduto che in Calabria nascano proprio gialli.

Civita (CS) - Calabria

Civita sta lì, su un altopiano a strapiombo sulle strette gole del Raganello. Circa novecento abitanti, di cui una grossa parte è emigrata in qualche modo verso nord e torna solo d’estate, insieme alle altre centinaia di civitesi che si sono sparpagliati tra Roma e Francoforte e che ora non figurano più nelle statistiche demografiche del paese, ma che come mio padre tornano ogni anno, lasciano le t-shirt nell’armadio, indossano una vecchia camicia righe e la sbottonano sul petto per lasciar intravedere la catena d’oro con il crocefisso al collo. Come a dire “sono tornato, questo è ancora il mio paese”.

Tra le case diroccate di Civita si scorgono alcuni tra i paesaggi più belli di tutta la Calabria. Tra le sue strade si assiste a tradizioni secolari che hanno pochi paragoni possibili nel resto della penisola. Sì perché Civita – o Çifti, il “Nido d’Aquila” – non è poi tanto italiana. È arbëreshë, vale a dire che è un’antica comunità di origine albanese i cui usi e costumi, compresa la lingua, hanno conservato l’eredità trasmessa loro dal comandante guerriero Scanderberg e i suoi uomini, che nel XV secolo erano intervenuti contro i saraceni in aiuto del re Ferrante D’Aragona.

Ragenello - Civita (CS), Calabria

Ogni estate, appena arrivato con i miei genitori mi muovevo con disagio tra queste vecchie case, sentivo su di me gli sguardi delle vecchie comari che si affacciavano la balcone per scrutare il passaggio dei visitatori. Rispondevo con fatica alle domande di antiche conoscenze che, certo, mi conoscono da quando ero piccolo così, ma come non ti ricordi, venivi sempre con la mamma…

Poi, il tempo di due discese al mare (35 minuti in macchina tra curve e tornanti: la Calabria non è una regione marittima, bensì un’area montuosa solo accidentalmente circondata dal mare) e quattro cene dalla zia (“Ne vuoi ancora? Non essere timido, mica ti devi vergognare!”) mi ritrovavo steso sulla sedia del bar, rivolto verso la strada principale a fissare le auto degli ex civitesi appena arrivati per le vacanze come una vecchia comare, pancia rigonfia di salsiccia-soppressata-rascatielli-melanzane, perfettamente integrato nella cultura locale se non fosse per la catena al collo.

Ora sono tornato. La camicia a righe ce l’ho. Sono pronto a farmi mettere all’ingrasso da mia zia. Al mare ci andrò se capita, mentre salirò molto più spesso in montagna. Ho salutato tutti quelli di cui mi ricordo, più qualcun’altro a cui ho concesso il beneficio del dubbio. Ho quasi un mese di anticipo su chiunque altro debba arrivare qui per le vacanze. Al bar sulla strada principale ho già la membership card. E tu chi sei? Da dove vieni? Di chi sei figlio? Sei tornato per le vacanze, eh? Benvenuto a Civita, sì è anche il mio paese, solo che mancavo da un po’…

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