“L’antiviaggiatore”, ovvero dell’impossibilità di viaggiare

Recensione a cura di Angelo Ustilic

L’antiviaggiatore – dal libro di Carlo Crescitelli – potrebbe essere una figurina, una di quelle che si muovono in un disegno animato. Uno schizzo in giro per il mondo, dalle caratteristiche riconoscibili, impegnato in tentativi ripetuti di viaggi non riusciti.

Diamo così una faziosa sintesi di un libro intrigante. Una sintesi tagliata con l’accetta, opinabile quanto si vuole, ma originata dal tipo di libro che ci troviamo tra le mani: un libro costruito per accumuli, per sedimentazioni, con mattoni di memoria giustapposti. A noi l’esercizio di smontarne la costruzione, di ammirare i singoli mattoni e di sovrapporli in modo nuovo, come accadeva con le costruzioni di pezzetti di legno colorato che ci regalavano da bambini. Alcuni pezzi avanzavano sempre e li adoperavamo per altri tentativi.

Un primo filo progettuale per i lettori – non per l’autore che ha già dato – è l’antiviaggiatore alle prese con gli stereotipi dell’italiano, tutti spunti di sceneggiatura per animare la figurina da cartoon:

– Italia come mafia, sussurrato dalle parti di Helsinki;
– italiano, dunque latin lover, appetibile per la hostess dell’estremo Nord canadese, ma detestabile in Olanda;
– paccottiglia finto esotica rifilata agli abituali consumatori italiani nell’afoso Egitto: piramidi, hashish, dromedari ed altro innominabile… manca la sfera con la neve e la Sfinge;
– improbabili ristoranti italiani sparsi per il mondo: l’antiviaggiatore incappa nelle paralasagne canadesi di Mr. Cappuccino.

Ed ancora:

– l’italiano insidiato dal tassista con prostituta al seguito, in una Mosca ancora formalmente comunista;
– oppure il nostro è preda degli equivoci linguistici: la mantequilla di Barcellona.

Verrebbe da dire: si tenta un viaggio, un andare via, un immergersi nell’altrove, ci si documenta prima per meglio mescolarsi agli indigeni, e finisce che gli altri ti riconoscono per quello che sei. Non con il tuo nome e cognome, la tua individualità. Sei un italiano. Basta così.

Forse è anche giusto: quanto tempo l’antiviaggiatore vive accanto a chi incontra? È in viaggio, non può fermarsi. Cadremmo in una contraddizione in termini se si attardasse lungo la marcia. Pretende di specchiarsi altrove ed in altri individui, di catturare sensazioni ed insegnamenti, senza che gli altri si riflettano in lui.

Con una parafrasi seicentesca, potremmo allungare il titolo: l’antiviaggiatore, ovvero dell’impossibilità di viaggiare.

I libri di una volta raccontavano di qualcuno che tornava da un viaggio, da lontano, dopo tanto tempo. Lui, il protagonista, giungeva trasformato; osservava il suo luogo d’origine con uno sguardo nuovo, e i parenti, i conoscenti, in un gioco di specchi e di riflessi, accettavano o respingevano il cambiamento.

Oppure i romanzi raccontavano di un tizio, uno sconosciuto, giunto in città. Da dove proviene questo viaggiatore? Diserta da qualcosa? Cosa vuole da noi? E la trama scorreva.

Il nostro antiviaggiatore spezza lo schema consueto per costruire i suoi racconti. Anche perché il consumo di tecnologia impedisce oggi la distinzione nello spazio: oggi non sono più credibili i personaggi che lasciano la terra natia e, a piedi o veleggiando, raggiungono luoghi lontani per poi tornare dopo anni. Se non tornano subito allora si stanno nascondendo, evitano di incappare nei satelliti occhiuti e nei segugi di “Chi l’ha visto?”.

E tutto si connette nel tempo presente: non occorre attendere il ritorno del viaggiatore carico di tesori materiali e di saggezza esperienziale da elargire a chi è rimasto a casa. Ci giunge un sms: “Sono atterrato, tutto bene.” Inutile infiggere bandiere per il possesso dell’approdo, per certificarlo ai posteri. Lo stendardo di Colombo piantato a Hispaniola e la bandierina americana, tesa nel vento impossibile della Luna, sono dietro di noi.

Quelli del Grand Tour sapevano cosa volevano. Vedere, toccare quel che avevano letto: le pietre antiche, le città, i paesaggi, l’azzurro italico cielo. Ed il presente materiale, il mangiare, il dormire, lo spostarsi non erano che ostacoli da domare e sopportare, da riportare al margine di ciò che si attendevano e prefiguravano: viaggi come tesi da avvalorare.

Noi invece, a cui è divenuto impossibile viaggiare, possiamo però allora, per una sorta di contrappasso, guardare a noi stessi come punto di arrivo e non di partenza nella traiettoria di un viaggio. Non esiste viaggio senza memoria da condividere. Un viaggio si riproduce se puoi raccontarlo; altrimenti, se lo custodisci solo per te, è sterile. L’antiviaggiatore conosce la lezione.

Sarà per questo che prediligo le oscure parole che ha disseminato tra le pagine: Wolof, Uighuri, Senifo…

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.