Il MoNa di Hobart: il museo che ha scioccato l’Australia

Situato nei pressi di un grande vigneto a Moorilla, 12 chilometri a nord di Hobart, il Museum of Old and New Art è il più grande museo privato di tutta l’Australia.

Hobart, capitale della Tasmania, è la seconda città più vecchia dell’Australia dopo Sydney. Fondata nel 1804 lungo il fiume Derwent, è dominata dall’alto dalle foreste pluviali del Monte Wellington e a breve distanza da favolose spiagge di sabbia finissima. L’eredità architettonica, in gran parte restaurata, evidenzia un colorato passato coloniale popolato da detenuti, cacciatori di balene e ricchi mercanti.

Questo museo, fortemente voluto e pensato dal suo proprietario David Walsh, ha reso la Tasmania ed Hobart soprattutto, una delle più importanti mete turistiche dell’Australia intera.

David Walsh, genio matematico e scommettitore professionista di altissimo rango è un personaggio fuori dalle righe. Collezionista d’arte ed estremamente orgoglioso delle sue radici, che affondano profonde nella storia della Tasmania, ha voluto realizzare un museo capace di catalizzare l’attenzione di solito riservata ai musei di città ben più famose, come Sydney o Melbourne.

Realizza quindi, con l’aiuto dello studio di architettura australiano Fender Katsalidis, un museo privato, un luogo per esporre la grande varietà di opere della sua collezione personale realizzate in tutto il mondo dagli artisti più disparati. Il museo raccoglie un’incredibile varietà di opere che vanno da oggetti di antichità, di artigianato tribale ed aborigeno, a opere d’arte contemporanea tra le più controverse al mondo.

Conosciuto con il nome di MoNa, il museo viene inaugurato ed aperto al pubblico nel gennaio del 2011. È citato dalla cronaca mondiale per essere un’importante attrazione turistica in una città di modeste dimensioni paragonandolo, per interesse, al Guggenheim di Bilbao.

Finalmente Hobart, famosa per essere stata il primo insediamento in Australia di colonizzatori britannici e galeotti, e salita tristemente alla ribalta per il terribile massacro di Port Arthur del 1996, è ora una tappa imperdibile per gli amanti dell’architettura e dell’arte. Il design sotterraneo dell’edificio e l’approccio non convenzionale e provocatorio del proprietario contraddistinguono questa realizzazione che basa la sua poetica sui temi del sesso e della morte. In quello che da molti è stato definito come il “Museo shock che ha cambiato Hobart”, il visitatore si trova davanti a spettacoli atroci e difficilmente ne esce senza il minimo turbamento.

La collezione esposta è quella che il fondatore si è costruito negli anni e che ha trasformato in un museo permanente con la collaborazione di un ex curatore del Centre Pompidou di Parigi: Jean-Hubert Martin. Ci sono opere di Kandinskij, Basquiat, Warhol nonché di artisti locali.

Dal punto di vista architettonico, l’edificio che ospita il museo responsabile per la rinascita del turismo della Tasmania, è importante tanto quanto le opere esposte. Nel novembre del 2012 il MoNa è stato riconosciuto al NAA (National Architecture Award) vincendo il premio Sir Zelman Cowen per l’Architettura Pubblica.

L’accesso al Mona è possibile sia dal fiume che dalla terraferma. La vista dal traghetto è mozzafiato: l’edificio è basso ma imponente e si riflette perfettamente nelle acque del fiume Derwent. La struttura si amalgama bene con il paesaggio naturale grazie ai colori. I muri di cemento sono caratterizzati da un pattern a griglia contornati da merlature di acciaio Cor-ten dal tipico color ruggine. Dal molo l’accesso al museo avviene tramite una ripida scalinata scavata nell’arenaria, ispirazione che Walsh ha avuto camminando sul sentiero per il tempio di Naxos, nell’omonima isola greca.

La sensazione che si ha arrivando da terra è invece molto diversa: l’edificio è mimetizzato e nascosto, e sotto molti punti di vista deludente. I due diversi approcci al museo ci raccontano il rapporto di Walsh con la sua città natale ed il suo bisogno simultaneo di riconoscimento e di privacy.

Per trovare l’entrata bisogna attraversare un campo da tennis – che Walsh usa quotidianamente nei suoi allenamenti davanti allo sguardo incuriosito dei turisti – sul cui lato opposto, un portale a specchio ne annuncia l’entrata. Il portale, che ricorda un po’ quello delle fiabe, segna il passaggio tra mondo reale e mondo fantastico: la scala a chiocciola che scende ripida attraverso un cilindro di vetro ci porta al livello più basso del museo. A questo punto ci si trova davanti, non ad una biglietteria, ma ad un ambiente delimitato da una parete di nuda roccia arenaria, rozzamente scolpita, alta tre piani.

Scopriamo quindi che il museo si svolge sotto terra, si sviluppa su tre piani per un totale di 6500 metri quadrati,  ed è caratterizzato da ambienti cupi e senza finestre . Il suo contenuto macabro che include urne cinerarie, sarcofaghi egizi, carcasse di animali in avanzato stato di decomposizione e corpi mutilati (scolpiti dai famosi fratelli Chapman), rende questo museo una immensa catacomba a tutti gli effetti.

È sembrato naturale per Walsh e Katsalidids che il museo della Tasmania, stato con una lunga storia di estrazione mineraria e di grande sfruttamento, dovesse trovarsi sotto terra e ricordare una caverna. Walsh vuole farci credere che ha dovuto scavare metri di terra per trovare i suoi manufatti e riportarli alla luce. Come omaggio alla cultura del metallo in Australia, la rampa di collegamento tra i tre piani è costruita in acciaio Cor-Ten, che come all’esterno, è caratterizzata dal tipico color ruggine. Colore che rappresenta i paesaggi dell’outback e delle coste australiane e soprattutto della non lontana Bay of Fires, insenatura famosa per i colori rossi e dai tramonti infuocati, situata sulla costa est della Tasmania.

Il sodalizio lavorativo instauratosi tra Walsh e l’architetto Katsalidis è alquanto atipico: è uno di quei casi in cui il committente è famoso tanto quanto il progettista, se non addirittura di più. In questo caso il committente aveva le idee molto chiare e Katsalidis ha solo dovuto affinare e rendere possibile l’audace visione di Walsh. Egli definisce il suo amico architetto come l’artista che ha saputo accontentare ogni sua richiesta, la persona giusta perché capace di non realizzare sempre lo stesso edificio.

Walsh ha voluto anche ricreare un “anti-British Museum”, un edificio capace di insinuarsi dentro il visitatore piuttosto che trasmetterne la sua presenza. Per questo motivo non ci sono indicazioni, i percorsi sono liberi ed il visitatore deve perdersi all’interno dell’edificio provando un forte senso di pericolo. L’ambiente buio e labirintico è quanto di più minaccioso ci possa essere. Le opera d’arte devono essere scoperte e non mostrate, in modo che il visitatore costruisca la propria personale opinione e l’esperienza non risulti in qualcosa di imposto e programmato.

La visita al museo diventa quindi un’esperienza sensoriale. Le opere esposte e l’ambiente in cui si trovano mettono a dura prova la sensibilità di ogni visitatore, causando un grande senso di disagio e di fastidio. I temi della morte sono enfatizzati dalle luci e dalla brutalità della loro sistemazione. È sicuramente un edificio che fa pensare.

Per fortuna una volta ritornati in superficie la luce del sole ci riporta alla realtà, ma le facce sconvolte dei visitatori affermano che quello che abbiamo visto non era solo un sogno, ma una possibile realtà.

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