Barcellona, una città ostaggio del genio di Gaudì

E così sono giunto anch’io a Barcellona. Non saprei dire bene perché questa città non mi avesse mai attratto prima d’ora: sono sempre stato affascinato dalle opere di Gaudì – tra le poche architetture di cui conservi memoria di tutte quelle studiate svogliatamente sui libri del liceo – ma ho sempre pensato alla capitale della Catalogna come ad un covo di ragazzini festanti intenti a scolarsi ettolitri di liquori scadenti mentre sfoggiano capigliature all’ultima moda e abiti di marca comprati ad un prezzo ben superiore di quello di tutto il mio guardaroba messo insieme.

Non che io abbia alcunché contro i ragazzini festanti – a mio modo lo sono anch’io (risparmiatevi le battute sull’età, grazie) – ma sono certo che se dovessero scegliere, nessuno di loro verrebbe consapevolmente in viaggio con me, pertanto confido nella loro comprensione se io condivido e ricambio questo saggio e umano sentimento.

Eppure eccomi qui, nella capitale della movida. Anche se di movida io ne ho vista ben poca, né me la sono andata granché a cercare. Per sicurezza per la Rambla ci sono passato di sfuggita solo una volta, a tarda notte, quando tutti i locali sono già chiusi. Il mio appartamento è un carismatico monolocale nel Quartiere Gotico, che ho già scoperto essere la mia area preferita della città. Qui i grandi viali si interrompono e per palazzi fatiscenti e antiche costruzioni medievali si insinuano piccoli vicoli bui, su cui si affacciano ristoranti grandi quanto una cantina e bar frequentati da giovani allegramente trasandati.

Sopra la mia camera durante il pomeriggio si esercitano nel tip tap, mentre sotto, la sera, un circolo ricreativo ospita musicisti folk che suonano organetti, chitarre e percussioni. Non esattamente un’idillio di pace e tranquillità, ma una scanzonata baraonda in cui innegabilmente ritrovo un certo agio.

Quando poi scopro al Cat Bar, quasi di fronte al mio portone d’ingresso, un vecchio pianoforte concesso per l’uso a musicisti di passaggio che si limitano a posizionare un bicchiere per le offerte sopra lo strumento, la struggente malinconia del quartiere mi assale e mi riscalda, e intravedo in Barcellona una città più complessa e romantica del famigerato covo di urla e schiamazzi a cui temevo di andare incontro, una meta per sognatori e personaggi introversi a cui le gentili cameriere si rivolgono con cautela per non urtarne la fragile emotività.

A parte perdermi per i vicoli gotici del mio quartiere, i miei obiettivi a Barcellona sono di una semplicità banale e rassicurante: Sagrada Familia, Pedrera e paella. Quest’ultima la provo e riprovo in diversi locali, è sempre buona e gustosa, ma mai eccezionale. D’altra parte mi avevano avvisato che a Barcellona non si mangia in modo eccezionale. Non si mangia mai male, ma non in modo eccezionale.

La Sagrada Familia ha evocato in me emozioni molto contrastanti. L’opera che ha ossessionato Antoni Gaudì fino alla sua morte è un’evocativo colosso monumentale, un inno a tutto ciò che c’è di grandioso e sconcertante nell’arte. Un inno anche al genio stesso del suo autore, alla sua ricerca ispirata alla natura, al movimento, al continuo divenire. Sembra quasi di poterlo sentire, quell’Antoni, mentre si pavoneggia per le sale immense della chiesa, ammirando soddisfatto le tremende verticalità su cui si riflettono i raggi variopinti filtrati dalle vetrate, per fermarsi baldanzoso davanti a quel crocifisso sospeso in aria – più una caricatura surrealista che un’icona verso cui indirizzare le proprie preghiere – e ringhiare verso i visitatori stupefatti “questo l’ho fatto io, e voi checcazzo avete fato nella vostra vita?”.

Che non sia una chiesa è chiaro a cominciare dal costo per accedervi, 19 euro con la visita alle torri da cui ammirare l’immenso panorama, per poi passare all’annesso negozio di souvenir in cui acquistare la miniatura del complesso in ogni formato e materiale. Questo però non ha impedito ai curatori di esporre all’ingresso avvisi severi sul mantenere il silenzio, perché si tratta di “un luogo di culto e di preghiera”.

Ovviamente del culto e della preghiera a Gaudì importava ben poco, a lui importava solo della sua opera. E quando gli hanno messo in mano la realizzazione di altri palazzi signorili non si faceva mancare l’occasione per indicare con un’arco, una curva o un pertugio la sua amata Familia. Ne ha messo uno anche sul tetto della Pedrera, per ricordare alla famiglia Milà – che lo pagava fior di quattrini per la loro nuova residenza – che l’unica sua vera, grande creazione di cui gli importasse davvero qualcosa era quella.

I poveri Milà si sono così ritrovati un edificio all’epoca inguardabile, perché su Passeig de Gracia non c’erano ancora tutte quelle impressionanti architetture che in fondo non fanno che rendere omaggio all’estro di Gaudì. Non per niente gli abitanti di Barcellona l’hanno soprannominata “pedrera”, cava di pietre.

Non contento – sempre quell’Antoni – aggiungeva pezzo su pezzo per realizzare un abitazione unica e inimitabile, facendo lievitare il conto dei proprietari che a un certo punto l’hanno proprio licenziato, e invece di finirlo, hanno lasciato incompiuto il tetto, adornando con i mosaici di cava – ottenuti con i frammenti delle bottiglie del prelibato vino spumante spagnolo – solo i comignoli rivolti sulla strada.

Questa è la Barcellona che mi piace: poche feste, molta arte, tante storie. Se poi qualcuno mi dicesse dove si mangia la paeilla più buona della città…

Prezzi

  • visitare la Sagrada Familia (compreso l’accesso alle torri) – 19 €
  • tour notturno alla Pedrera (con guida in inglese e aperitivo finale con vino cava) – 30 €
  • mangiare la paeilla (in media) – 11 €
  • il treno da Marsiglia – 110 €
  • affitto appartamento nel quartiere gotico (per notte) – 40 €

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