Rapsodia Balcanica: calda accoglienza e cinico sarcasmo

I balcani o meglio i problemi dei balcani sono come i semi del limone: quando cerchi di afferrarli e capirli sfuggono via e si trasformano in altro.

Vlado Petrovic

Quale miglior espressione per condensare in un’unica frase la persistente ritrosia dei Balcani a farsi comprendere dagli europei occidentali e il loro sarcasmo nero, grottesco e cinico?

Dopo ogni viaggio balcanico mi sento esausto, spremuto di ogni enegia fisica e mentale al punto da tornare svuotato, internamente combattuto dalla della struggente contraddizione balcanica: ospitalità generosissima accanto a odio e rancore per il vicino.

Ziveli brate, “salute fratello”. La “vecchia calda ospitalità balcanica” prevede che appena entrato in casa, ti facciano sedere sul tavolo della cucina mentre preparano due shottini di Rakja: brindisi made in Balcan! Mi commuovo sempre come se fosse la prima volta: in questo non c’è alcuna differenza tra i diversi paesi o zone dell’ex Jugoslavia. La struggente malinconia deriva dalla generosità, ospitalità e genuinità delle persone che incrocio nel mio cammino. Tutto ciò dopo aver giurato e spergiurato di non voler tornare, e invece ci sono ricascato un’altra volta…

Fatica a ricomporsi il quadro di Skopije, capitale e specchio della piccola e giovane Macedonia, composizione di immagini e contrasti. Povertà e fatalismo tipicamente “mediterraneo” sono l’altra faccia della medaglia dello sperpero di denaro pubblico da parte del governo per rifare facciate di palazzi e ponti troppo vistosi. Dalle parole delle persone con cui parlo sembra forte la tensione con una minoranza albanese, numerosa e vendicativa, sopratutto considerato quel che mi dice Ana: “Dopo la guerra cominciò la transizione. Che dura ancora adesso. Una transizione che non finisce mai.”

Da qui a Nish, prima città della Serbia meridionale, i chilometri non sono poi tanti: appena qualche ora di autobus che si inerpicano tra montagne verdi e strade dissestate. È qui che percepisco per la prima volta il ruggito dell’orso serbo, quel nazionalismo al testosterone che alcuni politici cercano di inculcare nella popolazione per giustificare una profonda crisi economica, lenire la ferita sanguinante del Kosovo,e dare un senso ad  una transizione da dopoguerra che non sembra avere mai fine e la gente che reclama lavoro e dignità.

Le stesse tensioni e livori verso la minoranza albanese e musulmana continuo a sentirle anche a Nish e a Kraljevo, condite con una malcelata insofferenza di molti verso i vicini croati. In una situazione occupazionale pessima e con molto lavoro nero, si aggiunge la eterna disoccupazione dei laureati serbi, giunti ad un livello di sconforto tale che una ragazza mi gela il sangue dicendomi: “Si stava meglio prima, quando c’era la guerra. Almeno i miei un lavoro ce l’avevano, e dei soldi. Io no lavoro no soldi. No vita mia.”

Prendi un balcanico. Chiedigli se preferisce perdere 100 dinari o che muoia la mucca del vicino. Lui ti risponderà: se perdo i miei 100 dinari mi arrabbio. Ma se muore la mucca del vicino sarò costretto a vendergli il latte della mia… quindi è meglio perdere 100 dinari!

Belgrado, Serbia

Vlado mi ascolta indulgente mentre esprimo le mie preoccupazioni sui miei vicini balcanici, e dopo aver tentato inutilmente di comprendere  perchè mi preoccupi tanto per le sorti di queste montagne nere, si fa indulgente e sardonico e mi spiega, con una buona dose di fatalismo tipica di queste terre, che le tensioni ci saranno sempre. Sono secoli che queste montagne nere sono il teatro di mille battaglie.

Provate a rivedere un film di Kusturica o di Manchevski dopo esserci stati nei balcani. Proviamo a guardare con occhi nuovi il sarcasmo e il lato grottesco di quei film. Chiediamoci se non sia l’arte per raccontare la follia del reale che abita tra le montagne degli Slavi del Sud.

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