Le Isole Keys, in Florida, un paradiso esclusivo in cui tropici e Occidente si incontrano

L’arcipelago delle Keys – il cui nome deriva dall’antico spagnolo cayo, “piccola isola” – è un gruppo di isole coralline poste quasi a semicerchio a breve distanza l’una dall’altra a partire dall’estremità sud della Florida.

Chi non volesse volare direttamente a Key West, la più popolata e più occidentale delle isole abitate dell’arcipelago, può raggiungere l’arcipelago da Miami percorrendo lo scenografico tratto della US 1 denominato Overseas Highway, che collega alla terra ferma quasi tutte le isole. Le altre si raggiungono solo con il trasporto marittimo.

Io ho scelto di arrivare da Miami e quindi la US 1 è per me diventata il biglietto da visita di questo gruppo di isole, che nell’immaginario collettivo americano sono sinonimo di riposo e pensione.

La prima impressione è quella di una bellezza quasi inverosimile, tanto sfiora la perfezione. I tratti che si percorrono sulle isole maggiori, spesso lenti e trafficati, rappresentano solo degli intervalli prima della successiva folgorazione perché, appena si lascia un’isola e ci si immette su uno dei lunghissimi ponti per raggiungere la successiva, la vista si apre e le Keys offrono uno spettacolo che lascia senza fiato, fatto di acque cristalline e riflessi abbaglianti.

Altre isole, alcune vicine alcune lontane, si stagliano eleganti sulle acque, e basta osservare con occhio attento per scoprire, nascoste dietro la vegetazione lussureggiante, abitazioni esclusive non tanto per la fattura quanto per la posizione, solitaria e riservata.

Le isole sono di origine corallina, paradiso delle immersioni, inutile quindi attendersi spiagge chilometriche come quelle che caratterizzano la vicina Florida continentale ad eccezione del parco naturale di Bahia Honda. Qui, infatti, la spiaggia è lunghissima, le acque chiare e molto basse, i rumori ovattati, e la mente può abbandonarsi ai pensieri più remoti, senza paura di essere riportata bruscamente alla realtà.

Passeggiare sulla sabbia finissima e ascoltare il rumore delle onde offre le stesse sensazioni che si ritroverebbero su una spiaggia caraibica. Solo un elemento riporta immediatamente il visitatore alla realtà: la fauna, con gli uccelli migratori a farla da padroni indiscussi al tempo staso gelosi del proprio spazio ma generosi nell’offrire uno spettacolo maestoso ed esclusivo.

Gli spazi sono talmente ampi – come sempre in America – che anche l’antico ponte ferroviario in disuso costruito agli inizi del Novecento diventa parte integrante dell’ambiente e offre un tocco di nostalgia alla spettacolare veduta.

Io ho scelto uno dei resort di Key West, vicino alla dimora di Hemingway, per vivere per qualche giorno la vita di coloro che sono considerati fra gli americani più fortunati. L’isola è popolata ma mai caotica o rumorosa, non esistono grattacieli ma solo case basse di legno, dipinte in colori vivaci e immerse in piccoli giardini: chi pensa di trovare le ville sterminate di Palm Beach ha sbagliato posto, alle Keys l’esclusività non si misura in termini di dimensioni della casa o della piscina. Poche le auto in movimento: la bicicletta è il mezzo che la fa da padrone in questo angolo di mondo.

Chi vuole ricordarsi che in fondo sempre di America si tratta può recarsi a Duval Street, una delle tante zone franche dove le regole ferree che regolano la vita di questa nazione non valgono, sostituite dalla tolleranza per l’eccesso più sfrenato: la musica frastornante e l’alcool a fiumi ci riportano bruscamente alla Strip di Las Vegas o a Bourbon Street a New Orleans.

La cucina è una scoperta parimenti piacevole e inaspettata: l’Avana dista solo 140 chilometri in linea retta e i ristoranti cubani offrono cucina tradizionale, fatta di sapori semplici a base di pesce fresco e pochi ingredienti.

Alla fine, dopo tre giorni passati sull’isola, credo di avere capito quale sia il segreto di questo angolo riservato e aristocratico degli Stati Uniti. L’unione fra l’efficienza americana e i ritmi blandi caraibici portati dai tanti esuli cubani hanno creato il connubio perfetto, una vita lontana dalle psicosi americane e dai suoi ritmi vorticosi ma che conserva al tempo stesso i tratti migliori della cultura occidentale.

L’ennesima dimostrazione che la giusta via è quella che passa per accoglienza e valorizzazione delle culture, non nella chiusura in difesa di uno stereotipo senza senso.

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