Logiche di mercato e cattiva educazione: il difficile rapporto degli Stati Uniti con il cibo

Ci sono paesi dove il cibo è un lusso, altri dove è un piacere. Negli Stati Uniti, caso abbastanza isolato nel mondo occidentale, è principalmente un problema, e non c’è bisogno di essere un dietologo o un sociologo per rendersene conto: basta camminare per strada e contare quante persone obese (bambini compresi) si incontrano, oppure guardare la televisione e assistere alle pubblicità riferite ai prodotti per il dimagrimento o ai medicinali necessari per curare i disturbi legati all’alimentazione.

Ed è un problema complesso, essenzialmente culturale ed economico, con molte sfaccettature e di difficile se non impossibile soluzione.

Il popolo americano non ha la cultura del cibo e non percepisce l’importanza di una corretta alimentazione. Soprattutto nelle città le persone abituate a cucinare sono davvero in bassa percentuale, per la maggioranza si tratta di una perdita di tempo ed ecco perché nei supermercati abbondano in gran numero i piatti pronti da scaldare al microonde (un elettrodomestico che non manca in nessuna casa).

Ma anche quando si parla di cucina tradizionale, non si tratta di un qualcosa che si possa definire salutare. Principalmente si tratta di una cucina proteica, basata principalmente sulle carni rosse, sulle uova e sui derivati dei latticini, conditi da salse abbondanti. Il pesce è consumato in bassissime quantità e spesso fritto, mentre vengono preferiti i crostacei, generalmente fritti anch’essi.

Certo, gustare una bistecca americana di qualità con contorno di patate fritte è un’esperienza estremamente gratificante per il palato: non tutti i giorni, però!

Il concetto di verdura è principalmente connesso alle patate (chiaramente fritte, a costo di apparire ripetitivo). Anche una normalissima insalata rappresenta una portata da guarnire con alimenti proteici (formaggio, uova o pollo, nonché le immancabili salse), perché generalmente i sapori “semplici” non incontrano il favore del pubblico. Tutto deve essere eccessivo, anche le porzioni.

Non giova nemmeno il consumo abbondante di bevande gassate, generalmente più economiche dell’acqua e spesso offerte con la formula del “free-refill” (il bicchiere può essere riempito a piacere).

Anche i giovanissimi sono vittime di questo approccio scorretto: non è affatto raro vedere bambini appena svezzati cui vengono somministrate patate fritte e altri prodotti simili, creando assuefazione fin dalla tenera età per poi raggiungere l’apogeo durante il periodo scolastico.

Nelle mense delle scuole, infatti, vengono serviti principalmente prodotti da fast food con poche alternative salutari che, ovviamente, incontrano ben poco gradimento da parte del bambino cui viene lasciata totale autonomia nella scelta. Così si educa il futuro consumatore.

L’obesità infantile è forse l’aspetto più angosciante di questo problema: guardare tutti quei bambini sovrappeso che riescono a malapena a correre mi rende veramente triste. E sono tanti.

I fast food costituiscono sicuramente la peggiore espressione del problema, perché rappresentano un elemento imprescindibile della società locale. La loro diffusione è capillare su tutto il territorio nazionale perché garantiscono la soluzione perfetta per il popolo a stelle e strisce.

Innanzitutto per la rapidità del servizio, qualità necessaria per una nazione sempre in movimento, abituata persino a bere il caffè mentre cammina. Non è un caso che la loro diffusione sia iniziata negli anni Cinquanta, in concomitanza con l’inizio degli spostamenti di massa con l’auto.

In secondo luogo, perché le pietanze offerte sono oggetto di attente ricerche di mercato, e quindi perfettamente tarate sulla domanda dei consumatori.

Infine per l’aspetto economico: un pasto in una catena di fast food è estremamente economico, con il risultato di costituire la quasi esclusiva fonte di alimentazione per una buona percentuale di americani poco abbienti. È una delle grandi contraddizioni di questa nazione, nella quale sono i poveri a essere in sovrappeso, a differenza di quanto avviene nel resto del mondo.

Inutile dire che le varie catene rappresentano anche una potente lobby, che può fare leva sulle scelte politiche strumentalizzando l’elevatissimo numero di posti di lavoro offerti e un indotto economico degno di un piccolo paese benestante.

Va dato atto alla first lady Michelle Obama di avere intrapreso una decisa campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, ma la lotta appare fin da subito impari perché, oltre a scontrarsi contro nemici agguerriti, deve anche fare i conti con la tradizionale allergia degli americani alle ingerenze di governo nelle questioni soggette al libero arbitrio popolare.

Il tempo a disposizione non è molto, prima di dover dichiarare che la battaglia è stata persa.

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