In viaggio con il diabete: i primi 200 giorni intorno al mondo

Cinque mesi fa vi abbiamo raccontato, attraverso un’intervista, lo straordinario progetto di Claudio Pelizzeni: fare il giro del mondo senza aerei in 1000 giorni. Se già questa è di per sé un’impresa, a rendere tutto un po’ più complicato c’è anche uno scomodo compagno di viaggio: il diabete.

Noi stiamo seguendo con passione il viaggio di Claudio e oggi vogliamo celebrare questo suo traguardo, cedendogli direttamente la parola e lasciando che sia la sua penna a raccontarci le emozioni più grandi vissute in questi primi 200 giorni.

Duecento giorni. 

Duecento giorni di vita vera, duecento giorni di libertà, duecento giorni lontano da casa alla scoperta del mondo, senza aerei. Ho trovato la mia felicità? Questa è una domanda che risuona nella mia testa raramente, ma me la sono posta una volta arrivato a questo intergiro. 

Sì, sono felice. L’ho realizzato quando ho trovato la mia Isola che non c’è, nell’arcipelago delle Andamane. Ho realizzato tuttavia che non era lo spettacolo in sé di una spiaggia bellissima, quanto i sacrifici che ho fatto per giungere fin lì. È stato il posto più lontano raggiunto finora senza aerei. Credo che se ci fossi arrivato durante una delle solite brevi vacanze che mi prendevo dal lavoro la sensazione sarebbe stata molto diversa. Sarebbe stata solo una spiaggia in più tra le tante viste nella mia vita. Indubbiamente la più bella, ma il ritorno a casa mi avrebbe fatto pensare a quel posto solo come a una chimera. Essermelo sudato, aver passato 150 giorni di viaggio a mangiare la polvere della terra attraverso mezz’Asia, me lo ha fatto gustare come non mai. Il mio modo di viaggiare è anacronistico, come anacronistica è stata quella sensazione. Non un piccolo momento di felicità, ma un crescendo costante, passo dopo passo.

Uno dei momenti più significativi del mio viaggio finora è stata la partenza. Ho realizzato quello che stavo facendo solo una volta salito sul treno, quello stesso treno che prendevo ogni mattina per recarmi al lavoro. Stavo salutando tutti gli amici e i parenti. Sembrava una di quelle situazioni che la mia generazione non ha mai vissuto: la partenza per la leva militare. Avendo un fratello più grande di circa dieci anni, ho rivissuto il momento di una fredda e umida serata autunnale quando eravamo tutti sul binario a salutarlo. Anacronistico. Siamo soliti partire quasi senza salutarci e ritrovandoci da altre parti del mondo inghiottiti dalla nostra vita quotidiana. Io quel momento me lo sono goduto tutto e lo tengo custodito nel forziere dei ricordi. E sogno ad occhi aperti il mio ritorno, tra 800 giorni, con le stesse persone pronte ad accogliermi. Alcuni si saranno sposati, altri avranno avuto figli, altri saranno sempre i soliti meravigliosi “cazzoni”. E la mia famiglia, lì, consci che questa lontananza ci ha fortificato, ha rinsaldato i nostri rapporti per il semplice fatto che abbiamo il tempo di poterci scrivere e raccontare. 

La famiglia. Intorno al mio centesimo giorno in viaggio ho vissuto probabilmente il momento più emozionante di tutta la mia vita. Ero in Nepal, ad aiutare una piccola onlus italiana, Human Traction, a prendersi cura di alcuni orfani nella Valle di Katmandu. Qui, oltre alle emozioni quotidiane legate a questi bambini e la straordinaria umanità che li contraddistingue, ho potuto assistere ad un evento unico. Storie di traffici di bambini per adozioni corrotte sono all’ordine del giorno in Nepal. Grazie allo spirito e all’animo di una grandissima persona, due fratelli e una sorella si sono potuti riabbracciare dopo sei anni. La loro storia struggente ed emozionante mi ha permesso di capire che la vita è assolutamente meravigliosa e che non bisogna mai perdere la speranza. Le cose belle accadono e bisogna lottare e andare contro la logica per conquistarsele.

Un’altra famiglia che mi ha offerto una straordinaria lezione di umanità è stata quella di un esile e timido artista di Udaipur, in India. Pittore raffinato e uomo di gran cuore e generosità, pur essendo poverissimo mi ha aperto le porte di casa sua come se fossimo amici da una vita. Ha diviso quel poco che aveva con me e mi ha accolto nelle sue umili mura. Questo esempio mi ha portato a riflettere sulla nostra condizione attuale, nella nostra società dove l’accumulo di averi è direttamente correlata alla paura del prossimo. Paura che domina le nostre giornate e che riduce il nostro piccolo cosmo con rapporti umani sempre più fragili e virtuali. Un rapporto anacronistico, quello tra me e questo piccolo grande uomo, poiché al giorno d’oggi abbiamo mille amici su Facebook e non conosciamo nemmeno il nome del nostro vicino di casa.

L’ultimo pensiero di questi duecento giorni in giro per il mondo lo dedico a me stesso, alla serenità raggiunta con un durissimo corso di meditazione. Anche la meditazione è anacronistica. Significa prendersi del tempo per poter guardare dentro se stessi. La ricerca della felicità, la compassione verso gli altri, la voglia di lottare per un mondo migliore che stiamo facendo a pezzi senza rendercene conto. Rispettare gli altri e sé stessi. Una pulizia mentale necessaria per poter assorbire tutto quello che la vita e il mondo mi stanno riservando nella continuazione del mio cammino, nel mondo e nella vita.

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