Alla fine del mondo: Salento terra del silenzio

Sto tornando a casa. Dall’ultima volta è passato un anno e non so quanto tempo passerà di nuovo quando sarò ripartito. Voglio scrivere adesso, prima di arrivare, perché sia la memoria a dettare il racconto.

Casa mia, il posto in cui sono nato, è alla fine del mondo.

C’è un santuario che si staglia alto, come l’epilogo di una lunga storia, all’incrocio dei due mari. Lo chiamano De Finibus Terrae ed è l’ultima vedetta di questa terra estrema che chiamano Salento.

Ricordo la prima volta che mi ci portarono, da bambino. Ero stanco: bisognava salire una lunga scalinata e il sole ancora forte, alla fine dell’estate, rendeva ardua l’impresa.

Non so se è stata la stanchezza o la cognizione improvvisa di trovarmi al confine di un mondo, ma l’immagine di quel momento è rimasta fissa e inalterata nella mia memoria. Una fortezza di pietra bianca, enorme e quasi incandescente sotto il cielo limpido. C’era un vento forte e avanti, oltre gli archi di pietra, si sentiva chiaro lo scontro perenne dei due mari.

Ha davvero un portamento maestoso il santuario alla fine della terra: è chiuso come una cittadella a strapiombo sul mare, potente e imprendibile. Molto tempo fa, in un’epoca che sembra ormai lontana come quella delle favole, i pirati saraceni assaltavano la costa con le loro navi e sparavano dal mare potenti colpi di cannone. Dicono che le palle di questi cannoni si trovino ancora in giro, camuffate nelle mura e nei prospetti delle case.

Io invece non sono nato sul mare. È vero, il mare dista pochi chilometri da casa mia, ma chi è nato qui sa bene che poche centinaia di passi possono fare una grande differenza. L’Entroterra è un’altra storia.

Il mio paese si chiama Martano e se ne sta là, da qualche millennio, nel cuore sepolto delle terre rosse.

Al liceo, il professore ci diceva che noi siamo greci. Diceva che le radici sono importanti, che non bisogna dimenticarle. Io non lo so se è vero che siamo ancora greci, ma c’è questa costellazione di piccoli villaggi, di cui anche il mio è parte, dove  i vecchi fanno capannello nella piazza e discutono in una lingua antichissima e orami quasi perduta che chiamano griko.

Quando torno dalla grande metropoli in cui vivo, qualche volta cammino da solo, la sera, per le strade deserte. Le finestre sono chiuse e la luce rossa dei lampioni rimbalza sulla pietra consumata dei vecchi palazzi signorili. Il silenzio, padrone della scena, incanta il castello aragonese e i vicoli ingarbugliati del centro storico. Tutto è fermo. L’inverno qui, la sera, abolisce la variabile del tempo.

So bene che da quando sono andato via il Salento ha cominciato a diventare famoso. Se incontro qualcuno e dico di essere nato e cresciuto qua giù, vengo spesso travolto da una strana forma di entusiasmo e ricevo addirittura dei complimenti. Le spiagge caraibiche, la pizzica, la Taranta, il cibo buono, il Sud e la magia. Lo so, è vero: tolto l’entusiasmo della moda, resta il dato obiettivo di una terra straordinaria.

Però, vorrei dire loro quando mi dicono tutto questo, non fermatevi all’acqua limpida del mare. Non fermatevi all’estate dei canti e dei tamburi, al frastuono delle feste che in vero appartiene assai poco a questa terra. Cercate anche l’incanto dell’inverno, il mare che ribolle e si scaglia sulle scogliere aspre e le torri bizantine poggiate al crocevia dei venti.

Qualche volta ho l’impressione che i turisti non abbiano il tempo di capire cosa rende questi luoghi fuori dal comune. La verità è che la bellezza del Salento riposa nell’asperità della sua genesi. La terra è amara e concede frutti solo con moltissimo sforzo. Il sole brucia i raccolti e il vento umido consuma la pietra delle case e delle scogliere. È la severità del clima e della vita che ha disegnato i contorni spezzati di questi luoghi.

Per me che ci sono nato, il Salento resta la terra del silenzio. È quel posto alla fine del mondo in cui, se riesci ad arrivarci, puoi trovare qualcosa che altrove non esiste più. C’è molto spazio per guardarsi dentro qui.

Quando sono stanco, quando la vita si è confusa o mi ha confuso, c’è un posto dove amo andare. Dicono sia il punto più a est, il punto sopra il quale sorge il primo sole. Io però ci vado sempre al tramonto. Si arriva affrontando la falesia ripida e scendendo poi per un sentiero tortuoso scavato nella roccia.

Alla fine della strada c’è un faro bianco, costruito sopra uno sperone di pietra. Lo chiamano Palascìa.

Io mi siedo e, senza fretta, scruto i confini estremi di questo mondo: qualche volta, se il vento spazza via la foschia, oltre il mare si intravvede il profilo lontano delle montagne.

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