10 mesi in Etiopia: i colori, i popoli e le madri di un paese da amare

Quando penso all’Etiopia, la prima cosa che mi viene in mente sono le montagne e i bellissimi panorami che si vedono da lassù. Si vedono altre montagne, pianure calpestate da mandrie di buoi, terreni coltivati, fittissimi banani e falsi banani, distese che sembrano di velluto formate dal tef, un cereale senza glutine che cresce solo qui.

Si vedono tonalità di colori che sanno di natura pura: il verde chiaro e scuro di erba e foglie, i vari tipi di marrone che caratterizzano la stagione secca, l’ocra e il bellissimo rosso delle terre non asfaltate, il bianco, rosso, rosa, giallo dei fiori. In alcuni punti, in quelli meno frequentati, sono rimasta a bocca aperta davanti a un facocero, un’antilope grande quanto una mucca, babbuini che mostrano i denti minacciosi, scimmiette ruba pranzi, simpatiche guereza che si fanno accarezzare, uccelli spettacolari: verdi, blu, gialli, rossi, bianchi, enormi o piccolissimi.

Ad accompagnare questo spettacolo spesso ci sono dei bambini intenti a saltare sugli alberi, cantare, provare a dire qualche parola in inglese per attirare l’attenzione ed è bellissimo vedere, dopo essermi girata a guardali, nascere sul loro viso un sorriso birbante ed imbarazzato. I bambini, ragazzi e i loro genitori sono la vera ricchezza del paese. Non è una ricchezza fatta di denaro, ma di cultura.

Sto parlando di più di 80 gruppi etnici diversi. Ognuno di questi ha una storia a se fatta di reali, amori e guerre. Per citarne qualcuno posso partire dagli Amara nelle terre del Nord: Gonder e Bahardar ad esempio. Sono Amara i re d’Etiopia, da Fasil all’ultimo imperatore d’Africa, nonché Dio rastafariano Hailé Selassié.

Gli Oromo sono gli eterni rivali degli Amara. Si trovano in tutta l’area intorno ad Addis Abeba, che considerano la loro capitale. Sono commercianti e agricoltori, probabilmente è loro la ricchezza fisica del paese. I Guraghe, verso sud, sono famosi per il caffè servito con un cucchiaino di burro. I Tigrini sono all’estremo Nord, ad Axum e Mekele ad esempio, e poi i Wolayta, i Kaffa, gli Afar, i Gambella, le Tribù…

È una storia antica, forse la più antica – come ci dimostra Lucy – e bella tanto quanto lo era la regina di Saba. Amo andare in giro per i mercati pieni di spezie, abiti tipici, collane con croci ortodosse di varie dimensioni e forme, in base alla città di provenienza. Ma non si trovano solo croci, perché nella storia di questo paese la religione è un punto fermo. C’è la religione nazionale, copta ortodossa, la cui sacralità è ben visibile a Lalibela. Poi c’è la religione musulmana respirata a pieno ad Harer con le sue 99 moschee. Ci sono cattolici e protestanti, liberi di non sentirsi una minoranza. Infine ci sono i Felasha, discendenti della regina di Saba e del re Salomone d’Israele, giudei.

La cosa però che più amo di questo paese sono le donne. Spesso, nelle zone rurali, sono le donne a fare tutto. Si occupano della casa, dei figli, di guadagnare denaro, anche facendo le muratrici. Vanno a prendere l’acqua a chilometri e chilometri dalla propria casa, cariche con 40 litri a volta. Cucinano, e qui non è semplice. Si inizia con il carbone, lo si sistema bene affinché il calore sia uniforme, ci si pulisce gli occhi lacrimanti per il fumo senza farci caso. Si tritano cipolle, l’aglio, si cuoce tutto molto lentamente. Se sono legumi, vanno raccolti, puliti bene perché sono sicuramente pieni di sassolini spacca denti. Se è formaggio va creato, partendo dal latte munto a mano, fatto fermentare per almeno tre giorni, poi sbattuto in una sorta di vaso gigante fatto roteare per ore ed ore per dividere il burro da ciò che una volta cotto diverrà formaggio. Va preparato l’injera, anche quello a mano su un enorme piatto di ferro posto sulla fiamma viva. Ci vuole tempo e ci vogliono spezie che prima vanno essiccate per giorni e poi tritate a mano. Così come viene tritato il caffè, dopo essere stato lavato, pulito, tostato e anche colto se si abita a Kaffa, terra dal quale viene il nome caffè.

Molte donne fanno tutto questo da sole, spesso sapendo di non essere amate, di non essere volute, di non essere rispettate. Ma lo fanno, non perché non sognano una vita diversa, ma perché hanno dei figli e non c’è niente di più importante.

Le mamme d’Etiopia sono uniche. Non viziano, non riempiono di complimenti e coccole, non muoiono dalla voglia di far sapere al mondo che amano i loro bambini, ma è per loro che sopportano tutto, in silenzio, con forza e una dignità immensa. È un paese unico che piano piano spicca il volo.

So che l’Etiopia un giorno volerà alto mantenendo quella marcia in più data dallo spirito di condivisione che si vede nel mangiare e bere solo in compagnia, dalla meraviglia della sua cultura e dal tempo che non viene sfruttato fino all’ultimo secondo, ma piuttosto apprezzato insegnando così a godere di ogni attimo.

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