Apice Vecchia, la città fantasma dell’entroterra campano

Mi sono sempre domandato cosa accade alle città se l’uomo smette di abitarle. Ma è un’idea e una curiosità che affascina molti dopo tutto. Quando mi hanno raccontato che non lontano da Benevento esiste un borgo abbandonato oramai da qualche decennio, ho deciso che era il caso di visitarlo.

Con gli amici attraversiamo allora il ponte che balza sul fiume Calore e la città deserta di Apice Vecchia comincia ben presto a delinearsi fra la vegetazione, al riparo di un colle.

Gli accessi sono sbarrati, non è possibile avvicinarsi con la macchina. A piedi, seguiamo un sentiero che sale verso il borgo abbandonato. Fronde possenti s’incrociano sopra le nostre teste e grappoli di fiori bianchi diramano un profumo dolce e maturo.

Qualche cane abbaia, le campane di un paese vicino suonano l’ora, ma nulla perturba la meccanica del silenzio. Siamo fortunati forse: non avvistiamo nessuno dall’altra parte dello steccato.

Tutto è immobile, fisso. C’è una piazza deserta. Alcune insegne recitano i nomi di un’epoca che non esiste più: “Biliardo”, “Alimentari”, “Beccheria”. Le porte sono aperte e dentro le sale c’è un lungo silenzio: l’erba cresce ovunque, vivace, come a incorniciare il ritmo crescente della desolazione.

Erano gli anni Sessanta quando il primo terremoto costrinse gli abitanti di Apice Vecchia a trasferirsi altrove.

Mi giro intorno, circospetto. Restiamo fermi, un po’ titubanti. C’è nell’aria l’atmosfera dei templi profanati. Le porte sono aperte, i segreti svelati, ma vogliamo davvero oltrepassare le soglie di case non nostre?

Seguiamo una via laterale: gli alberi crescono fra le pareti, i rami hanno sgretolato la pietra e aperto brecce ovunque. Alcune porte socchiuse ci invitano quasi ad entrare. Salgo per le scale di un vecchio palazzo, guardo in alto il soffitto spezzato e dal pianerottolo vedo una finestra aperta. Nella sala vuota c’è una poltrona: è piena di calcinacci caduti, ma sembra che solo un minuto prima il suo proprietario si sia alzato per andare a prendere qualcosa. Mi colpisce il fatto che la vita è ancora incredibilmente presente in questo posto.

Salgo al piano successivo. Le stanze sono piene di oggetti e gli oggetti pieni di polvere. Fuori dal balcone è appesa una vecchia bandiera dal partito socialista. Negli scaffali i libri sono al loro posto, gialli e stanchi. Vorrei sedermi, raccogliere i dettagli e ricostruire le vite di chi ha abitato queste stanze.

Visitare le case abbandonate diventa presto un rito, un sorta di pellegrinaggio fra le cappelle della memoria. Una casa patronale si staglia solitaria alla fine della strada: il giardino che un tempo doveva abbellirne il prospetto ora l’avvolge in un abbraccio violento e letale. Dai vetri rotti s’intravvede il tetto di una chiesa infestato dai rampicanti.

Il cielo è grigio e soffia il vento tiepido della primavera. Camminiamo ancora per le strade svuotate, seguiamo i segnali rimasti muti e le epigrafi appese alle pareti delle case. Chi mai le leggerà di nuovo? Tramandiamo segni e memorie certi che essi ci sopravviveranno. Invece qualche volta anche la memoria muore.

Nel vecchio studio di un fotografo i negativi e le fotografie sono sparsi sul pavimento come tessere di un mosaico spezzato. Alcune foto ritraggono gli sposi di un matrimonio, altre una partita di pallavolo.

Nella casa di fronte, al piano nobile, è rimasto il seggiolone di un bambino, solo, fra gli ammassi di rovine. Su un comodino in un’altra camera sono rimasti una bottiglia chiusa e due bicchieri.

Vaghiamo ancora, osservatori silenziosi, affascinati e increduli. Da un portone spalancato vediamo una porta sospesa nel nulla. Il pavimento che la sorreggeva è caduto e invece la porta è rimasta là, in bilico fra le epoche, come animata da un singolare sortilegio.

Per terra, nelle stanze in disordine, le mura cadute nascondono spesso frammenti delle storie che le hanno popolate. Aperto sul pavimento trovo il diario di qualcuno: mi chino in silenzio e leggo qualche riga, ma non lo muovo, non lo sfioro neanche. In fondo questa casa non è diversa dalla mia: anche nel mezzo del disastro l’intimità di certi oggetti resta inviolabile.

Mi siedo un poco sui gradini della chiesa principale. Il fiume scorre in basso e la città nuova è ora visibile su una collina non troppo lontana. Penso che avrei voluto visitare questo posto da bambino. È difficile definire con le parole il tempo e la storia. Invece qui è tutto incredibilmente evidente: non sono necessari discorsi né lunghe spiegazioni.

Saliamo infine sulla terrazza del vecchio edificio comunale. È il punto più alto e domina tutto il borgo. I tetti e le guglie sembrano ancora perfettamente integri da questa prospettiva. In questo strano luogo, la prospettiva aerea non svela il mistero ma, al contrario, ne esaspera l’inganno.

Città fantasma - Apice Vecchia, Campania, Italia

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