L’altro lato delle Maldive

Credo che tutti i Paesi del nostro mondo, ma anche le persone, abbiano dei lati, belli o brutti, che vengono mostrati e rivelati agli altri. Altri lati, a volte, si tende a nasconderli perchè è meglio non farli vedere. Credo che questi lati nascosti, alle Maldive come in altre destinazioni basati sul lusso, siano molto più accentuati che altrove.

Alle Maldive ci si va soprattutto per l’esclusività del luogo: pace, calma, mare, spiaggia, lusso e servizio di livello elevato sono i motivi principali che spingono i turisti a frequentare questi paradisi terrestri. Parafrasando un famoso album dei Pink Floyd, The dark side of the moon,  potrei dire che anche qui, come sulla luna, c’è un lato che non si vede o si vede molto poco. È il caso delle isole dei nativi e della loro vita, zone in cui il turismo non arriva e dove ho avuto modo di entrare in contatto con gente del posto.

Perdermi per le strade di Malè con una guida, la prima sera, mi ha catapultato subito in un mondo nuovo ma allo stesso tempo indietro di circa cinquant’anni. Luoghi in cui le strade non conoscono l’asfalto, se non in certe zone, ma solo la terra, dove le pozzanghere e le buche sono la normalità e l’illuminazione è fioca o assente. La gente passa più tempo a chiacchierare tra sé che attraverso i social network, nei pochi bar o per le strade.

Ma Malè non è nulla in confronto a certe isole, luoghi forse dimenticati da Dio dove la popolazione continua a vivere con ritmi blandi, scanditi più che altro dai cinque momenti di preghiera annunciati dal muezzin dalla torre dell’immancabile moschea, piuttosto che da un orologio digitale all’ultima moda. Qui la gente vive con il poco che ha, l’unica traccia di tecnologia si nota alzando gli occhi verso l’antenna solitaria che porta nell’isola qualche connessione dati di chissà quale tipo o qualche canale televisivo.

I bambini, spesso scalzi, corrono per strada e giocano a rincorrersi. Il massimo del divertimento lo si ha al campetto, luogo di ritrovo dei ragazzi che si incontrano per praticare lo sport nazionale, il calcio. Qui si gioca con palloni fatti anche di pezza, costruendo le porte e giocando tutto il giorno. Quando il tempo cambia di colpo, si corre a casa, ad aiutare i propri genitori a preparare le bacinelle per raccogliere l’acqua piovana, acqua che se raccolta può permettere di lavarsi ma anche di bere: ci sono giorni in cui l’acqua potabile, da Malè via barca, non arriva.

In tutto questo, e lo noto mentre faccio da interprete a dei turisti, i ragazzi non smettono mai di sorridere e di salutare, ci guardano come fossimo degli alieni ma sono curiosi ed è una curiosità piacevole. Non hanno nulla eppure sono felici, i loro sorrisi sono sinceri, i loro occhi scuri, profondi ma gioiosi. E mi stupisco, perché se ripenso a tante coppie in vacanza che si lamentavano di tutto, nonostante fossero circondate dal lusso e comfort, capisco che il loro sguardo era infelice, seppure dalla vita avessero avuto tutto. Che la vera felicità a volta stia nella semplicità delle cose? Forse sì.

Per chi non avesse la possibilità o la voglia di recarsi a vedere la vita locale, basta addentrarsi un po’ nelle aree riservate al personale per vedere un lato sconosciuto della vita a cinque stelle superlusso. In una terra dove il lusso e il turista la fanno da padrone, per la popolazione locale, come in quasi tutti questi paradisi, i benefici sono assenti o molto limitati. Le compagnie portano all’estero gli introiti, i dipendenti nativi sono, per legge, il 50 per cento della forza lavoro, ma lo stipendio rimane comunque contenuto nonostante gli incassi. Quando ad ogni mese veniva proclamato il “lavoratore del mese”, i cento dollari extra erano visti quasi come una manna dal cielo. Giusto per dare un esempio del livello del costo della vita, uscivo dal Tuck Shop, il negozio di alimentari e prima necessità ad esclusiva dei dipendenti, con due borse della spesa e spendevo la bellezza di 6 dollari, circa 4 euro, per una spesa che fatta da noi costa tra i 30 e i 40 euro.

Ho visto buffet sfarzosi e carichi di cibo venir snobbati dai turisti, cibo venir sprecato o buttato, con gente che a pochi chilometri di distanza viveva di pesce, chapati e acqua. A volte il buffet della colazione veniva utilizzato per l’ora del tè delle 16 a cui partecipavano tutti i dipendenti. Era qui che si vedavano le scene più incredibili: tutti si accalcavano davanti alla porta della mensa che, una volta spalancata, era un sorta di via per una gara a chi si accaparrava più cibo. Brioche, torte, panini, muffin e quant’altro venivano letteralmente spazzolati nel giro di cinque minuti, se non di meno. Ho provato a chiedere a qualcuno il perché di tanta ressa, ma la risposta che più mi ha colpito è stata: “Mi hanno detto che da voi si usa mangiare così tutti i giorni, non solo in vacanza. Quando mai ci ricapita l’occasione di abbuffarci con tanto ben di Dio? Noi queste cose non le abbiamo tutti i giorni, a volte di mattina non si fa neanche colazione.” Effettivamente era vero.

In tre mesi ho vissuto varie situazioni passando dalla faccia illuminata della Luna, quello del lusso, della bella vita e dei confort dei turisti, a quella oscuro, invisibile e nascosta, cioè quella dei dipendenti e dei locali i quali i comfort li fornivano ma non ne traevano alcun beneficio. Ci sono tante sfaccettature e a volte quelle più nascoste o meno visibili, sono le forse le più significative.

Foto di copertina: Mac Qin

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