Due amici in moto, la strada e le valli del Trentino

“Se abbiamo un paio di giorni liberi facciamo un giro in moto finché sono in ferie?”
“Sì, in moto… Io non ho mica la moto, il mio è uno scooter 125.”
“Andiamo piano. Vediamo fin dove arriviamo e cerchiamo un posto per la notte.”
“Ah… ok.”

Quando passi gli ultimi otto anni tra un continente e l’altro non è facile riabituarsi a un regime di stabilità. Ogni occasione per sentire scorrere la strada sotto la propria pelle è una tentazione irresistibile. Anche la più banale, o la più improbabile.

Quello con lo scooter da quattro soldi ovviamente sono io. L’altro, il mio amico da una vita, si presenta a casa mia alle otto del mattino con una Triumph Bonneville SE, cilindrata 865, due sacche ai lati per lo stretto necessario e una giacca da motociclista adatta ad ogni scherzo del tempo. Io parto in mezze maniche e pantaloncini. Tra le gambe uno zaino arrangiato in fretta – come al solito ero in ritardo – che non so nemmeno io cosa contenga esattamente, mi pare un po’ di biancheria, una o due maglie leggere, l’ultimo numero de L’Espresso – l’Internazionale è ancora in pausa estiva – un ingiustificato dizionario arabo-francese e il camcorder. E naturalmente lo spazzoli… no, quello l’ho dimenticato a casa.

Avevamo provato a stabilire una rotta il più possibile affidabile, ma alla fine l’unica certezza è che ci saremmo lasciati guidare dalle condizioni psico-fisico-meteorologiche. Dirige il mio amico. Tanto lui sa che io con l’orientamento sono una frana, e a me dove andremo a finire non importa poi tanto. Siamo sicuri soltanto che vogliamo puntare verso nord, tra le Alpi, le Dolomiti, le valli del Trentino, forse qualche cittadina. Vedremo.

Non riesco a parlare male di Castel Goffredo, il nostro punto di partenza nella provincia di Mantova. Questa mia patria adottiva mi sopporta da ormai troppo tempo e le telecamere di sorveglianza sanno se non è stato un’accudimento complicato e doloroso. Ma la verità è che la campagna è piatta e monotona, le strade grige e banali, ed è un sollievo condiviso quello che ci assale quando superiamo Affi e proseguiamo in direzione Trento, lasciandoci avvolgere gradualmente dalle cime alpine.

La strada diventa un susseguirsi di salite e discese, con frequenti curve ad allietare la guida. Sebbene inchiodato tra gli 80 e i 90 all’ora, non mi sento poi tanto ridicolo quando arriviamo alla nostra prima destinazione improvvisata. È ora di pranzo, e noi lo consumiamo a Calceranica al Lago, provincia di Trento. Il lago è quello di Caldonazzo. Placido, gradevole, famiglie con bambini sull’erba, un ristorante per noi che di fare panini non ne avevamo proprio voglia. Sono passate quattro ore e circa 130 chilometri, il sedere comincia già a farmi male e il casco mi stava bloccando la circolazione al cervello.

Nel pomeriggio le salite si fanno più ripide, il vegetazione più fitta e rigogliosa, i paesaggi delle valli più ampi e variegati. Ogni tanto la vescica chiama una pausa, e la sensazione della casa che si allontana, l’incertezza della meta e la strada infinita sotto le ruote è quasi intossicante. Fendiamo la Valsugana ridiscendendo a quote più pacate, e quando il tramonto inizia ad annunciarsi all’orizzonte ci fermiamo ad un bar lungo la strada. In rete troviamo qualche opzione e chiamiamo in cerca di una camera poco distante e non troppo dispendiosa. Alla fine ci aggiudichiamo un albergo alle porte di Belluno, con vista sulla statale. Una parentesi grigia nel nostro idillio alpino.

Belluno è una città graziosa. Insomma, un paesone più che altro. E poi noi siamo stanchi e non più tanto giovani, così quando riusciamo a rimediare una discreta cena ci diciamo contenti, e in barba all’onore di ex ragazzacci anche se è venerdì sera all’una siamo già sotto le coperte. Nelle nostre orecchie la sinfonia della statale.

Il giorno dopo la prima tappa è inequivocabile, siamo troppo vicini per non farci un salto. A 20 chilometri da Belluno, lungo il Piave, c’è Longarone, e da lì un breve passo di montagna ci parta alla diga del Vajont. Vederla così, solida e senza un graffio, non fa un grande effetto. In parte però c’è un centro informazioni da cui partono le visite guidate, c’è un memoriale, ci sono i disegni dei bambini delle scuole, ci sono i lunghi sospiri dei visitatori. C’e una certa atmosfera a ricordare quella notte del 9 ottobre 1963, quando il Monte Toc ha ceduto e ha provocato l’inondazione in cui sono morte più di 1900 persone. Un’altra tragedia evitabile, visto che la possibile frana sul Toc era già stata individuata nel 1960.

Anche se un po’ meno spensierati, proseguiamo con gusto verso nord e invadiamo la provincia di Bolzano. Ci lasciamo alle spalle le Tre Cime di Lavaredo e raggiungiamo le sponde del Lago di Dobbiaco, in Val Pusteria. Mangiare sul lago sta diventando la nostra piccola tradizione, ma per quanto siano incantevoli i paesaggi che ci circondano le salite stanno pesando sul nostro ritmo.

Il mio modesto destriero fa il suo dovere, ma se non evitiamo almeno i passi più ripidi a notte fonda saremo ancora in mezzo alle montagna in cerca di un bivacco. Così pieghiamo verso ovest, superiamo un borgo dopo l’altro sulla provinciale e poi scendiamo fino a Bressanone (Brixen), dove un’altra pausa-bar è necessaria per individuare il nostro prossimo alloggio.

Dopo aver valutato costi, tempi e distanze, la scelta cade su Collalbo (Klobenstein), a circa 30 chilometri. Proseguiamo sulla provinciale fino a Colma (Kollmann) e poi ci inerpichiamo su una serie di stretti tornanti, che quasi ci pentiamo dell’idea del cavolo che abbiamo avuto. Ma il paesaggio che si apre sotto i nostri occhi alla conclusione di ogni curva è semplicemente straordinario, e mentre ci allontaniamo dalla valle ci rendiamo conto che stiamo entrando in un mondo di pendii, piccoli centri sparuti e molta, molta quiete.

Probabilmente solo un attimo prima che io rimanessi a secco arriviamo alla meta, il Kaiserau, un albergo ristorante che da sei anni fa da sede a una simpatica colonia di macedoni. Un bel posto, ci conferma il proprietario. “Molto, molto tranquillo.” Il giro a piedi che ci concediamo dopo cena è un toccasana per le nostre schiene irrigidite e le gambe intorpidite. Intanto la mia eroica ostinazione per l’abbigliamento estivo a qualunque quota mi ha rimediato un discreto sconvolgimento intestinale che elimino sfebbrando durante la notte. Il giorno dopo, con la mia poco eroica felpa addosso, sono di nuovo pronto per partire.

Superando tanti e più tornanti di quelli che ci avevano portati a Collalbo ci portiamo alle porte di Bolzano, fermandoci brevemente solo per rendere omaggio al Lago di Carezza, perché ormai i laghi sono il nostro pallino.

Poco prima di raggiungere l’agglomerato urbano del capoluogo deviamo verso la Val di Fassa e raggiungiamo Moena, la “Fata delle Dolomiti”, che all’ombra delle sue cime rosate ci accoglie con i suoi colori e la sua idilliaca bellezza. E comunque ormai pur di riposarci panca di legno abbandonata in una palude maleodorante sarebbe stata accolta con gaudio.

L’ultimo pranzo della nostra piccola gita su due ruote lo consumiamo nel paese di Montagna, ahimè senza alcun lago a coronare la nostra breve tradizione paesaggistica. In compenso scopriamo un minuscolo borgo che, oltre a sopportare la toponomastica più pigra dell’arco alpino, è circondato da un’atmosfera così pacata che in confronto Collalbo sembrava Rio durante il Carnevale.

Le ultime ore di viaggio trascorono lungo l’Adige per trovare nuovamente Affi e ricongiungerci ai nostro monotoni paesaggi di campagna. La cornice delle montagne, l’aria frizzante di alta quota e il brio delle curve esercitano già il loro nostalgico richiamo, ma in fondo sono ben contento di essere tornato a casa. Sì perché, come dicevo sin dall’inizio, io non c’ho mica la moto, ho uno scooter, e se passavo un’altra ora in sella, con il vibrare del motore sotto i glutei e il casco che preme sulle tempie, sarei finito in un fosso dopo aver perso conoscenza.

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