Ankara, una città a strati per una società complessa e variegata

Ovviamente portava i baffi. In Turchia li amano proprio i loro baffi, ne fanno gaudente mostra anche sui manifesti elettorali. L’autista dell’autobus che speravo mi avrebbe portato alla fermata dei pullman diretti ad Ankara non parlava l’inglese. Molti baffi e poco inglese qui in Turchia. Alla mia timida richiesta – “Esenler Otogar?”, uno dei principali terminal di Istanbul – aveva risposto con veemenza ottomana, incurante del fatto che io non capissi una sola parola in turco. Era quasi mezzanotte, e io ero appena atterrato con un volo da Bergamo, diretto verso la capitale per assistere alle elezioni. “Ecco, sono fregato.”

Poi però un passeggero si è alzato e mi ha chiesto in inglese – stentato, ma intellegibile – dove volessi andare. “Ma no, così perdi un sacco di tempo! Ti mostro io dove prendere il pullman per Ankara!” Per pagare il biglietto occorreva la Istanbul Card, che io ovviamente non avevo. Allora il mio salvatore ha tirato fuori la sua e l’ha passata sul lettore. “Non è niente, siediti. Ti dico io quando scendere.” Ad un suo cenno l’ho seguito giù dall’autobus, e poi fino alla biglietteria della compagnia di trasporti. Ha spiegato le mie intenzioni, mi ha fatto avere il biglietto e ha atteso con me fino all’arrivo del pullman, raccontandomi del suo lavoro nel settore turistico e mostrandomi le foto delle sue due bellissime bambine. E così ho capito che invece ero salvo.

Il secondo angelo custode l’ho incontrato nel terminal di Ankara, Aşti. Un complesso grigio e un po’ angosciante di moduli industriali dove con le biglietterie convivono ristoranti, barbieri, negozi e bar. Lui – niente baffi questa volta, ma un volto giovane e pulito – mi ha scortato fino alla fermata degli autobus dove avrei preso quello per Tunali, nel distretto urbano centrale denominato Çankaya. “Voglio che porti un buon ricordo dei turchi con te in Italia, in Europa ci dipingono come dei barbari.”

Tunali è il fulcro della vita notturna di Ankara. Il resto della settimana sono in pochi i locali a vendere alcolici, ma venerdì e sabato sera i bar ribollono di giovani festanti, in una sterminata sequenza i ristoranti propongono specialità anatoliche e combinazioni esterofile, e le discoteche fanno ondeggiare le espansive ragazze di città con musica elettronica e dal vivo.

Non si sarebbe detto che domenica la popolazione turca – quasi 78.000.000 di individui, di cui un quarto ripartito tra Istanbul (14.000.000) e Ankara (5.000.000) – sarebbe dovuta tornare al voto dopo le elezioni di luglio, praticamente invalidate dall’insoddisfazione di Erdogan e del suo Akp. Non c’erano paura né tensione nell’aria, nonostante solo tre settimane prima in un attentato rivendicato dallo Stato Islamico erano morte 102 persone che manifestavano per la pace e la democrazia.

“Che cosa sei venuto a fare qui ad Ankara?”

Nonostante il carattere deciso della domanda non c’era mai astio nel tono, solo sincera incredulità. Ankara, come altre capitali di quelle nazioni di frontiera tra mondi distanti – come è indubbiamente l’enorme cuscinetto tra Europa e mondo arabo costituito dalla Turchia – non è nota per essere una meta particolarmente ambita. Eppure gode di un patrimonio culturale di grande valore. A cominciare dal Museo della Civiltà Anatolica, uno straordinario spazio di conoscenza e arricchimento che giustamente viene annoverato tra i musei più belli al mondo. Uno dei tanti straordinari musei della città turca. E poi l’imponente mausoleo del padre della patria, quel Mustafa Kemal Atatürk che dopo la Prima Guerra Mondiale e la caduta dell’Impero ha combattuto contro chi voleva vedere una Turchia debole e divisa.

Ecco già: Anatolia, Atatürk, Museo della Guerra di Liberazione… Bisogna ammettere che nell’aria si respira un certo nazionalismo. Quando deve riscoprire i suoi tesori archeologici Ankara si mostra molto meno entusiasta e accorta. I Bagni Romani a Ulus sono una distesa alquanto inerte di vecchie pietre, corredata da altre vecchie pietre rinvenute in templi e cimiteri vari a cui si è data una disposizione più simile a un magazzino di vecchi mobili che a un sito archeologico. E il Tempio di Augusto, sulle cui pareti si dice compaia il primo documento politico scritto della storia, è oggi un vecchio muro di mattoni. Nella sua ombra le guardie scacciano bonariamente i ragazzini di strada che si rincorrono tra i numerosi visitatori giunti per pregare nella Moschea di Haci Bayram, la più venerata di Ankara.

Eppure l’edificio di culto è stato costruito in parte al tempio senza pregiudicare la fruibilità di quest’ultimo, come a voler sancire già nel XVI secolo la nascita di una società aperta a più culture e religioni. Un tipo di società da cui la progressiva islamizzazione imposta dall’Akp – il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo – di Recep Tayyip Erdoğan sta creando un crescente distacco.

Eppure il cuore di Ankara c’è ancora, e batte nel posto giusto. C’è una velata delicatezza nei modi di questi mediorientali dai volti da burberi, una sottile dolcezza emanata dall’accortezza con cui i giovani si alzano per cedere il posto ai più anziani sull’autobus senza aspettarsi neanche un ringraziamento. È una melodia che pervade le strade nonostante gli slogan urlati dai megafoni tra i centri commerciali e i negozi di Atatürk Boulevard, una sorta di controcanto lento e inesorabile su cui la città si adagia per continuare il suo difficile percorso tra incertezze e paure, talvolta piegata ma non ancora vinta.

Dall’alto della cittadella che circonda il derelitto Castello di Ankara – solo in parte ricostruito – sulla cima del colle di Ulus, la città si offre allo sguardo immensa e sconfinata. Lo sguardo varia agilmente dalle eleganti moschee agli imponenti centri commerciali, dalle strade più trafficate agli angoli in stato di degrado e abbandono. Un ritratto adeguato per una città a strati, nel suo tessuto urbano come nella sua complessa cultura, nelle dinamiche politiche così come nella sua sfaccettata società in cui ancora oggi convivono idee e volontà molto diverse.

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