Parma in un giorno: consigli per un itinerario gastronomico

La mia intenzione era quella di riuscire a scoprire ogni angolo di Parma in poche ore: la città non è grandissima, nel centro storico ci si sposta tranquillamente a piedi e le cose da vedere sono concentrate entro un raggio di qualche isolato. Quello di cui non ho tenuto conto è che a Parma ogni angolo tende una trappola insidiosa al visitatore goloso.

Quando arrivo è passata da poco l’ora di pranzo: quasi corro dal Century Hotel in zona stazione fino al labirinto di vie delimitato da via Nazario Sauro e Strada Farini. Ho fame e sete e voglio provare uno dei panini o dei taglieri dell’Enoteca Fontana, magari insieme a un bicchiere di bianco. Ma la cucina ha chiuso, per cui non posso fare altro che sognare prosciutti e salami, formaggi e sottoli. Inizio a pensare che in questa città non conoscano la misericordia quando, dopo aver messo piede in altri quattro locali, nessuno sembra avere intenzione di dare da mangiare agli affamati. La cucina è chiusa. Ce lo sentiamo ripetere per quasi mezz’ora, in ogni enoteca in cui entriamo. La fame aumenta così come la tentazione di entrare nella prima salumeria e addentare uno dei tanti prosciutti appesi in vetrina. Per fortuna incontriamo sulla nostra strada Panino d’Artista, la cui cucina è ancora aperta nonostante l’ora.

La simpatia non è il piatto forte, ma i panini per fortuna sì. Il dehors non è né troppo curato né particolarmente pittoresco, con la sua struttura di plastica trasparente che rende il mondo esterno sfocato e i rumori ovattati. Forse è fatto ad arte per fare in modo che l’attenzione sia diretta tutta verso i piatti: il mio panino al crudo di Parma mi sembra il più buono mai mangiato. O forse è solo la fame.

Ora sono pronta per scoprire Parma. Mi incammino verso Piazza del Duomo, dove ci sono la cattedrale e il battistero. Ma non ci arrivo.

Non sono le tante botteghe dei gioiellieri né i negozi di abbigliamento di Borgo Santa Chiara e Borgo Tasso a distrarmi, ma l’Antica Pasticceria Pagani. È un locale piccolo e un po’ fuorimoda, con i mobili in formica che mi ricordano la cucina di mia nonna, addirittura con lo stesso pavimento di graniglia bianco e nero. C’è un profumo inebriante, talmente dolce da essere quasi nauseante: un misto di burro, crema pasticciera e qualcosa di alcolico che non riesco a identificare, ma che mi fa tornare in mente il bar del circolo dei ferrovieri dove andavo a comprare i ghiaccioli da bambina.

C’è un unico tavolino libero, con vista sulla vetrina dei pasticcini. Ce ne sono decine di varietà: le paste secche, con le mandorle o con la granella di zucchero; le paste inzuppate, ripiene di cioccolato, zabaione, crema pasticciera, crema al pistacchio. Verrebbe da ordinarne una per qualità se uno non rischiasse il coma diabetico, per cui mi limito a quattro.

Dopo la pausa in pasticceria ci sarebbe tempo per la Basilica di Santa Maria della Steccata, oppure per il Palazzo della Pilotta. Purtroppo però incontro sulla mia strada un altro ostacolo che mi distoglie dai miei intenti: la Libreria Fiaccadori, una delle poche in città a non appartenere a una delle catene di megastores che stanno sbucando ovunque tra un negozio di Zara e un McDonald’s.

Qui non c’è musica ad alto volume, né commessi in divisa con tanto di auricolare incollato all’orecchia. La signora alla cassa ti saluta quando entri, e ti risponde gentilmente quando chiedi se puoi dare un’occhiata tra gli scaffali alti fino al soffitto e i volumi esposti sui tavoli. Qui non c’è niente da mangiare, ma apprezzo l’atmosfera ovattata, il profumo della carta e il rumore delle pagine sfogliate lentamente.

Un paio di acquisti in libreria e torno in mezzo alla confusione di un sabato pomeriggio primaverile. Parma è la patria del Parmigiano Reggiano, dunque sarebbe imperdonabile non comprarne almeno un pezzo da portare a casa. I negozi di alimentari e di pasta fresca non mancano in questa città. Lungo la strada per l’albergo trovo La Verdi, in via Garibaldi.

Impossibile non notare le vetrine colme di salumi, prosciutti e forme di formaggio. Impossibile anche uscire con un solo pezzo di Parmigiano: finisco per comprare del prosciutto di Parma che non so come affetterò, e tonnellate di anolini che, erroneamente, chiamo “cappelletti” davanti al commesso. Lui mi corregge con gentilezza, dicendomi che qui a Parma questo tipo di pasta ripiena si chiama anolino. Non cappelletto, non tortellino, non raviolo. In effetti, quando me lo fa notare mi accorgo che a differenza degli altri tipi di pasta ripiena, gli anolini hanno una forma perfettamente rotonda, senza la “frangia” dei ravioli e senza il “fiocco” dei cappelletti. Quando gli domando cosa ci sia nel ripieno, mi risponde che oltre al Parmigiano Reggiano, all’uovo e al manzo, c’è un ingrediente segreto. Naturalmente.

Dovrò rassegnarmi all’idea di lasciare Parma senza aver scoperto cosa si sia dentro gli anolini, ma non senza averli assaggiati. Il posto perfetto per un pasto tipicamente parmigiano è la Trattoria dei Corrieri, in pieno centro, non lontano dal Parco Ducale. È un locale storico, che risale ai tempi in cui i corrieri facevano sosta alla trattoria per far riposare i cavalli e per mettere qualcosa sotto i denti.

Ha conservato il fascino del passato, con i suoi arredi un po’ fuori moda. C’è confusione, tra la gente che deve pagare e andarsene che si mescola con chi è appena entrato, i camerieri che si infilano con destrezza tra le persone in coda, portando piatti colmi, bottiglie, vassoi. È un posto allegro, dove si respira profumo di cose buone, come nella cucina di una casa di campagna. Il nostro tavolo è vicino alla sala in cui sono appese decine di prosciutti, dove una ragazza passa tutto il suo tempo a una vecchia affettatrice Berkel, a sistemare le fette nei piatti e a consegnarle ai tavoli. Ordiniamo un piatto di prosciutto di Parma, servito insieme a una porzione più che generosa di torta fritta e Parmigiano Reggiano. Poi gli anolini in brodo di carne. Aveva ragione il commesso della pasta fresca: sono diversi dai ravioli e dai tortellini, e sono più saporiti. Sarà per via del brodo, oppure è l’ingrediente segreto?

Forse mi toccherà tornare a Parma per scoprirlo.

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