Viaggio in Cambogia alla ricerca dei templi perduti di Beng Mealea

I templi perduti di Beng Mealea. Oggi Beng Mealea, 30 kilometri da Siem Reap, 1 ora e mezza  poiché “Le strade son quel che sono”, come ci dice Alessandro, la nostra guida di oggi che dopo vent’anni di viaggi conosce tutte le buche delle strade della Cambogia.

Come tutti i templi che si rispettino, Beng Mealea è circondato da un largo fossato completamente ricoperto da fiori di loto su cui svolazzano libellule rosse e blu; a destra, in mezzo alle capanne, i bambini giocano con l’acqua attorno a un pozzo, a sinistra, invece, sul ponte che scavalca il fossato, alcuni militari scherzano coi ragazzini che stranamente non vogliono venderci niente.

Mentre camminiamo lungo il viale di terra rossa che porta al tempio e mia moglie e la nostra guida chiacchierano del più e del meno (tocca sempre a me documentare il viaggio!) ci imbattiamo in un primo monumento: un cippo a forma di naga, serpente a cinque teste, perfettamente conservato. “Ma questo è appena stato scolpito!”, dico io, “No, è stato ritrovato a testa in giù nel terreno, è per questo che si è conservato così bene”, replica Alessandro.

A parte questo, tutto il resto non si è conservato, purtroppo, così bene. Il primo muro è rovesciato a terra come un domino di pietre grigiee da lì è tutta una misteriosa rovina: torri ridotte a pietraie, false porte che resistono al tempo, finestre aperte su pareti miracolosamente intatte; apsaras silenziose che osservano da angoli nascosti, guerrieri antichi che combattono su architravi precipitate al suolo, e su tutto il velo verde di muschi e licheni che le piogge del  monsone fanno rivivere ogni anno.

E poi gli alberi, quelli giganteschi che si fanno strada tra i massi per terra e quelli tenaci che crescono su torri e terrapieni, e radici che sollevano le pietre e si infiltrano nelle crepe e si allungano sui muri: siamo in un posto magico, quello dei romanzi d’avventura e dei film di Indiana Jones, tra le rovine di una civiltà perduta nel cuore della giungla.

In effetti, un film qui è stato girato nel 2004, quello di Jean-Jacques Annaud dal titolo “Due fratelli”, la storia di due tigrotti che si ritrovano; le passerelle di legno che facilitano la visita di una parte del sito sono state costruite in quell’occasione.

“Soffrite di vertigini?”, “No, perché?”…beh, lo capiamo in fretta, poiché dopo un corridoio diroccato e una torre crollata ci  troviamo a camminare su un cornicione sospeso su una fila di colonne sbilenche.

Mia moglie non fa una piega (allora quando si lamenta lo fa per partito preso!?) e dove non ci sono le passerelle il posto è ancora più selvaggio. Meno male che c’è Alessandro che ci guida, altrimenti non sapremmo come uscire e non c’è nessuno a cui chiedere aiuto! Ma, proprio per questo, è una bellissima esperienza. Vediamo cosa ci aspetta domani a Banteay Chhmar con Gabriele.

Strada sterrata, tre ore abbondanti di scossoni, tra povere risaie e stagni coperti dalle grandi foglie di loto. “Perché ci sono tutti questi alberi smozzicati e bruciacchiati?”- “L’esercito ha raso al suolo la foresta per una profondità di 200 metri ai lati della strada per evitare le imboscate dei khmer rossi” è la spiegazione dell’autista.

Banteay Chhmar è contemporaneo e grande quasi come Angkor Wat, ma solo adesso stanno cominciando a restaurare alcune parti grazie agli aiuti del Global Heritage Fund (GHF). In effetti c’è un operaio che sta squadrando un masso e quattro o cinque che lo guardano, un altro invece sta tagliando i cespugli che crescono tra i ruderi con un falcetto, l’equivalente di svuotare il mare con un secchiello bucato.

“Per la verità”, dice Gabriele, “l’intenzione è quella di mettere in sicurezza il sito per permettere la visita ai turisti e lasciare tutto il resto così com’è”. E il resto è un caos di pietre di cui non si vede la fine perché alberi, arbusti, radici e liane invadono e coprono tutto, qui non ci sono passerelle e nemmeno turisti, nemmeno uno!

La scarsa luce che filtra tra gli alberi rende ancora più misteriosi gli strani leoni (yali) sui muri pericolanti, le devadas immobili nelle loro nicchie e le file di monaci in meditazione sui frontoni. “Sembrano monaci buddisti”, dico io, “Sì, c’è una commistione di simboli hindu e buddisti”, conferma Gabriele che con lo sguardo sta esaminando alcune torri semi-diroccate.

“Eccoli! Protette dalla penombra e nascoste dai rami si intravedono dei grandi volti sorridenti composti da più massi come le tessere di un grande Lego. Ci sono solo qui e al Bayon di fianco ad Angkor Wat” spiega soddisfatto Gabriele. “Stai vicino, non ti allontanare come al solito”, mi chiede mia moglie e in effetti rispetto al Beng Mealea, l’ambiente è molto più cupo e selvaggio e, in più, non aiuta la storia raccontataci dall’autista di quei tombaroli che sono stati sepolti da un crollo improvviso e sono ancora là sotto da qualche parte.

Il muro esterno è una sequenza interminabile di bassorilievi anneriti dal tempo: scene di vita ma soprattutto di guerra contro i Cham, i nemici di sempre che abitavano l’odierno Vietnam, battaglie tra grandi canoe cariche di guerrieri, i morti ai pesci o ai coccodrilli, un re seduto, servi che fanno aria col ventaglio, più sotto una fila di prigionieri, due teste tagliate e offerte al re.

Meno truculenti ma più enigmatici due bassorilievi di una divinità dalle mille braccia ai lati di una porta. “Si tratta del Buddha Avalokiteśvara, il Buddha della compassione“, spiega Gabriele, “ed è unico in tutta la Cambogia”. Non c’è nessuno, eppure non manca l’offerta di bastoncini d’incenso in una ciotola di sabbia. L’ultimo ricordo è la ninfa celeste che ci osserva con sorriso misterioso da una colonna diroccata; tutto attorno alberi e rovine.

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