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Dal diario di Gabriele Colleoni
Quanto vale Potosì
Vista in lontananza e dall’alto, con l’incombente Cerro Rico colorato dai minerali che custodiva, una volta, in abbondanza, Potosì può richiamare una di quelle inquietanti città-satelliti che si costruiscono intorno a un grande complesso industriale. Saranno anche le suggestioni storiche a farci ombra, ma quel Cerro Rico è stata davvero la fortuna e la maledizione di una città che a fine Cinquecento, con i suoi oltre 100 mila abitanti, era più popolata e ricca di Parigi e di Londra. Da questa montagna di 4800 metri sono partite migliaia di tonnellate d’argento che fecero ricca e potente la Spagna dei conquistadores, sulle spalle della vita di otto milioni di indios sacrificate e spente in una delle tante “vene aperte d’America”. Esaurito l’argento che lungo la “ruta de la plata” veniva portato fino al porto di Buenos Aires, in epoca più recente a Potosì è stata la volta dello stagno. Anche questo da esportare.
Ma con la nazionalizzazione delle miniere negli anni Cinquanta, i minatori questa volta si trasformarono in una sorta di orgogliosa elite operaia boliviana. Pronta poi a battersi per salvare le “minas” nel momento in cui il crollo del prezzo internazionale dello stagno significò la catastrofe di un’altra epoca dell’attività mineraria. Oggi la Bolivia guarda altrove, per esempio al litio e all’uranio del Salar de Uyuni, lontano oltre 200 chilometri.
Sì, una volta dire di una cosa “vale un Potosì” significava l’impossibilità di farne una stima tanto era il suo valore. Lo sosteneva con convinzione anche Miguel de Cervantes, il padre di don Chisciotte. Oggi si fatica a crederlo vedendo i minatori scendere e risalire con andatura lenta le ripide stradine del loro quartiere. Si viene assaliti dal dubbio che sia mai esistita una leggenda del Potosì sbirciando tra le bancarelle del mercado minero della domenica, allestite a fianco dei negozi sempre aperti che vendono pale, caschi, picconi, stivali e candelotti di dinamite per penetrare le viscere della terra. Su Cerro Rico salgono ancora in seimila per guadagnare in miniera quasi esauste, poco più di cento dollari al mese. Sono 44 le “cooperative” e 165 le imprese private che si occupano di setacciare il Cerro per estrarvi quel che c’è rimasto di stagno e di zinco.
Il lavoro viene praticato ancor oggi in modo ancestrale, soprattutto dopo la chiusura dell’impresa di stato delle miniere, Comibol ci spiega Vilmer, un ragazzo che, abbandonati gli studi, è sceso in miniera come il padre. A 21 anni, anche a lui non resta che raccomandarsi, come fa ogni minatore di Potosì, alla clemenza del “tio”, il diavolo che sovrintende alla vita di chi si avventura nel ventre di Pachamama, la madre terra. Religiosamente prima di addentrarsi nell’oscurità e nell’aria pesante dei tunnel, bisogna offrire dell’alcool al diavolone, per avere la speranza di tornare a rivedere le stelle.
Le vedove dei minatori, trasformate dalla generosità dei compagni di lavoro del marito, in custodi degli imbocchi del tunnel, spezzano a colpi di rudimentali martelli le pietre delle discariche di materiali in cerca di metallo da rivendere. Eppure c’è un’impresa americana che ha in progetto di “filtrare” la montagna di detriti accumulata: può investire grandi capitali per le operazioni di raffinazione necessari allo sfruttamento, anche se i rischi d’inquinamento sono in agguato.
Intanto, la domenica dei minatori si consuma tra il mercado minero e una piccola fuga a piccoli gruppi verso il centro città. Sul Cerro Rico, chiusi nel loro rugginoso e spettrale silenzio, da anni restano aggrappati, come ogni giorno della settimana, i macchinari e gli edifici abbandonati della Comibol. E pensare che in lingua quechua, Cerro Rico- Sumac Orcko, vorrebbe dire “montagna bella”.
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