Le tappe precedenti:
- dall’Italia al Kazakistan
- dal Kazakistan alla Cina
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- dalla Colombia alla Bolivia
- dalla Bolivia all’Argentina
Dal diario di Paolo Brovelli
Un diamante è per sempre
Sono sessant’anni che la voce, qui dentro, è solo quella del vento. Vento che scricchiola, che cigola tra le assi secche e sdentate dei pavimenti e dei soffitti, che s’intrufola con le sabbie tra le crepe delle case, sulle scalinate in legno, a levigare le pareti tappezzate a vecchio. Fuori è foschia che s’alza dalle dune lisce, che quasi non si riesce a respirare, tant’è densa di deserto. Con due binari che si perdono nel nulla.
A Kolmanskop tutto parla di fatiscenza e morte da quando, nel 1954, l’ultimo dei suo abitanti l’ha consegnata all’abbandono. E dire che fino alla fine della Seconda guerra mondiale, era una florida città mineraria. C’era l’ospedale, la scuola. C’era persino un teatro. E la sala da ballo. E un casinò, certo, per permettere agli operai di giocarsi il frutto del loro lavoro, come in ogni luogo in cui c’è profumo di ricchezze, e la fortuna aleggia nell’aria.
Era nata coi diamanti, Kolmanskop, da quando la dea bendata aveva arriso a un pover’uomo, nel 1908. Da allora, ne erano venuti altri, tedeschi, tanti. Approdavano al porto di Lüderitz, lì vicino, e con il treno, ora pure in abbandono, arrivavano qui. E in mezzo al vento, sotto il sole di questa Germania tropicale cercavano la loro nuova vita. Poi, la miniera s’era impoverita e, alla fine, s’era spenta, insieme alle ultime luci delle case. Ora l’ha comprata il colosso boero De-Beers, il re delle pietre preziose. Le ha ridato vita, e s’è presa pure la gestione dell’accesso turistico (caro!) a questo luogo di spettri.
Perché, come si dice… “un diamante è per sempre”.
Lüderitz, ostriche e storie
Ancora Bartolomeu Dias, questa volta sottoforma di croce di pietra, monumento a quella da lui piantata nel 1488, su un promontorio, nel viaggio verso il Capo. In fondo alla baia arruffata di onde c’è Lüderitz, città di nome e ascendenza tedesca in cui lo stile Impero della colonia d’un tempo (la Namibia fu Africa Tedesca del Sud-Ovest dal 1884 al 1915) aleggia tra strade deserte, cantieri e moli, in un’atmosfera pungente di vento freddo. Ma di fascino remoto.
Nel suo passato, diamanti e dolore. A Shark Island, di fronte (inaccessibile oggi per il mare mosso), nacque a quel tempo il primo campo di concentramento tedesco, con i primi esperimenti medici sui prigionieri (herero e nama, popoli locali colpevoli di ribellione), prove generali di quel che avvenne un trentennio dopo.
Giù al porto, piccole imprese campano di pesce, aragoste, e coltivano ostriche, che esportano oltremare. Si ‘pescano’ in cesti dai vivai nella baia, la mattina, dice Ignace, uno di loro, cappello di lana calato sugli occhi, grembiule in cerata e sorriso bianco. “Stiamo fuori mezz’ora… o tre ore, dipende dal tempo”. È appena rientrato e intirizzito le sta ripulendo, selezionandole a montagne nei vasconi, insieme agli altri, grattando le alghe e la terra, nelle cassette in partenza più tardi per Windohoek e poi, in aereo, per l’Europa e soprattutto Hong Kong. Sopra il magazzino l’Oyster Bar fa al caso nostro. Una cuoca le prepara e le serve.
Ostriche chilometri zero, dunque… esclusi i 53.247 già fatti dall’Italia.
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