Questa mattina siamo andati a Somnathpur, una trentina di chilometri da Mysore, per visitare uno dei capolavori del Karnataka, il tempio di Keshava, costruito nella seconda metà del XIII secolo sotto il patronato dei sovrani Hoysala.
Un’esperienza simile l’avevamo già avuta a Gangaikondacholapuram, nel Tamil Nadu, dove un docente di architettura che a tempo perso faceva la guida turistica, o viceversa, aveva tentato con scarsi risultati di spiegarci, disegni in mano, i moduli base dell’architettura hindu mentre ci accompagnava in visita al tempio di Brihadishvara.
A Somnathpur abbiamo trovato un maestro di scuola elementare che a tempo perso fa la guida turistica, o viceversa, il quale, quaderno in mano, ci ha spiegato i temi religiosi collegati al tempio di Keshava parlando di mitologia hindu e intonando ogni tanto un bhajan (canto devozionale), cercando di farcelo ripetere proprio come si fa coi bambini a scuola, ovviamente con scarsi risultati.
Il tempio non è grande, anzi è piccolo rispetto ai templi del Tamil Nadu, ma ha una struttura particolare: c’è un unico padiglione di ingresso (mandapa) che conduce a tre celle della divinità (garbhagriha) messe ai vertici di un triangolo e ognuna con pianta a stella; il tutto si trova su una piattaforma che riporta lo stesso disegno ma è decisamente più ampia per permettere ai fedeli di farne il giro completo in senso orario come prevede la pratica religiosa (pradakshina). Sopra ogni cella si colloca poi una torre piramidale (vimana) sempre a pianta stellata… alla fine qualcosa ci è rimasto dell’architetto di Gangaikondacholapuram!
In realtà, come è fatto il tempio lo capiamo adesso rileggendo la guida, perché questa mattina siamo stati letteralmente ipnotizzati dalle centinaia di sculture e bassorilievi che coprono tutte le pareti del tempio: divinità in pose regali, bellezze celesti vestite solo di gioielli, Ganesha (il dio elefante mentre accenna un passo di danza), Vishnu seduto in meditazione sul serpente, Shesha (e qui il maestro intona un solitario bhajan) e centinaia di elefanti, cavalieri, uccelli e animali mitologici che ricoprono ininterrottamente le sei fasce alla base del tempio.
Più che un tempio un’unica splendida scultura. Il tutto termina con la faccia seria di un giovanotto in t-shirt con logo aziendale che si mette in posa davanti a mia moglie per una foto.
Non abbiamo fatto una grande impressione al maestro e ne siamo un po’ dispiaciuti, per tirarci su il morale questa sera facciamo un giro all’Amba Vilas Palace, il famoso palazzo del Maharajà di Mysore che viene illuminato da milioni di lampadine nelle sere di festa. Domani ci aspettano Belur e Halebid.
La strada per Belur è tutta in campagna, donne chine nel fango trapiantano il riso, donne curve sotto grandi fascine trasportano canne da zucchero ai camion in attesa, piccoli buoi dalle lunghe corna tirano carretti simil-siciliani, aironi di tutte le specie sono in attesa ai bordi dei campi appena arati; un ragazzino ci mostra orgoglioso, tenendolo per la coda, un grasso topo rubato agli aironi e mia moglie tiene le distanze.
A Belur ci sta aspettando la nostra guida, un ometto sulla quarantina (che non dichiara altre professioni extraturistiche) che incomincia il suo racconto: Belur oggi è una piccola cittadina ma è stata la capitale dell’impero degli Hoysala che si estendeva su buona parte dell’India del sud mentre il tempio di Chennakeshava che andiamo a visitare è stato costruito nel 1116; in Medio Oriente, intanto, si combatteva la Prima Crociata e a Milano era appena terminata la costruzione di Sant’Ambrogio (le ultime due informazioni sono mie).
Passiamo sotto un alto gopura di arenaria chiara, la torre piramidale che sovrasta le entrate di molti templi dell’India del sud e, sorpresa/delusione, il tempio è una bassa costruzione scura che sembra galleggiare dentro un cortile assolato con il tetto tagliato via di netto. Forse il vimana, la torre sopra la cella di Vishnu a cui il tempio è dedicato, non è mai stato costruito, ci dice l’ometto, ma il meglio almeno è stato salvato… ed è proprio “il meglio” a venirci incontro mentre ci stiamo avvicinando.
Due brevi rampe di scale, una porta ritagliata in un rigoglioso groviglio di pietra, muri traforati che sembrano merletti; facciamo la nostra pradakshina, ci guidano gli elefantini che corrono ininterrotti alla base di tutto il tempio, e, più sopra, i pannelli con le divinità celesti (c’è Varaha il cinghiale, che è un avatar di Vishnu, Krishna che danza sul serpente Kaliya e Shiva sul demone Elefante, vuoi vedere che anche il maestro ci ha insegnato qualcosa?).
Più in alto ancora, sotto gli spigoli del tetto, appaiono piccole ninfe danzanti; non c’è la ricchezza di sculture di Somnathpur, ma c’è comunque una signorile eleganza. L’interno è buio, qualche attimo per abituarci e vediamo come le colonne di scisto scuro dalle sagome esotiche reggano cassettoni cesellati e sulla parete di fondo una incredibile statua nera di Vishnu, ipnosi da India profonda, sia mastodonticamente lì, eretta in tutto il suo splendore.
Non c’è tempo nemmeno per riprenderci che arriviamo in un attimo al villaggio di Halebid, altra capitale degli Hoysala (ogni re voleva la sua!) e ci troviamo in fila per pagare il biglietto dietro ad un gruppo multicolore di turisti indiani. Ci sono altri templi in questa zona ma il tempio di Hoysaleshvara è da molti ritenuto il capolavoro degli Hoysala.
Ma quando è troppo è troppo, non è un tempio ma sono ben due uniti tra di loro, non è ricoperto da sculture come quelli di Somnathpur o Belur; sarà il caldo del primo pomeriggio ma ci arrendiamo, diamo un’occhiata al toro Nandi ed entriamo al fresco.
La luce violenta che entra dal fondo del corridoio viene assorbita dalle colonne nere lavorate al tornio; un gruppetto di adolescenti, sembra una scolaresca delle superiori, ride e scherza con l’insegnante di fronte alle statue sulle pareti di fondo, la pedana rotonda delle danzatrici è liscia e fredda e ci sediamo.
Fuori i turisti indiani guardano con curiosità uguale alla nostra le otto fasce scolpite che ricoprono il basamento, la prima con tanti elefantini in fila come formichine e poi cavalli e cavalieri, amanti e guerrieri, vegetali e animali.
Ma sono le sculture sulle pareti quella che ci lasciano davvero a bocca aperta: lo sguardo amoroso di Parvati per Shiva, il Ganesha ciccione (come si conviene al dio della fortuna), la Trimurti con Brahma tricefalo e barbuto, Krishna che regge il monte Govardhana, Narasimha che divora il demone. – Abbiamo finito il giro? – No, queste non le abbiamo viste… – Sicuro? – É impossibile capire e vedere tutte le 240 statue che decorano le pareti esterne dei due templi, ma quello che si capisce ed è chiaro è l’armonia delle forme e la precisione della scultura. Concordiamo sul capolavoro!
Mentre mia moglie fotografa gli elefantini io cerco, tra le decine di esuberanti bellezze, quella con la cavigliera mobile di cui la guida favoleggia: fosse per me sarei ancora là!
Cresciuto, tanti anni fa, sui romanzi di Kipling, Salgari e Verne, ho ritrovato l’anno scorso su un mio quaderno delle elementari un tema che descriveva un fantastico viaggio in piroga su un fiume nel cuore della giungla indiana. È da lì che evidentemente è nato il mio amore per le culture del sudest asiatico, l’India in primis, e per i fiumi lontani e le foreste oscure a partire dalla mitica Amazzonia.