Ore 06:30
Sedute su sgabelli ai bordi della strada le donne sono in paziente attesa, i cestini di vimini pieni di riso, i turisti inginocchiati lungo il muretto si aggiustano la fascia sulla spalla sinistra, in mano confezioni colorate di cibo e dolciumi, tutto è pronto per l’offerta del mattino.
Le tuniche arancio le vedi da lontano, arrivano in fila indiana, a piedi nudi, in silenzio, in testa i monaci più anziani, in coda bambini di otto/nove anni, teste rasate, ciotole lustre, le donne distribuiscono cucchiaiate di riso, i turisti buste colorate, mani giunte e inchini di ringraziamento, la lunga fila si allontana in un silenzio irreale.
Due bambini di cinque o sei anni, lei con una scatola di cartone, lui con una vaschetta di plastica, si accostano ai monaci, uno degli ultimi, un ragazzo poco più grande, dà loro una merendina appena ricevuta dai turisti, una scena che ti stringe il cuore.
Il Vat Phu Si
Ore 07:30
E’ ancora presto per il tour, che facciamo? Io mi riposo, dice lei – ok, io allora vado a fare un giro.
Sono ripidi i gradini per salire al Vat Phu Si, la collina al centro di Luang Prabang, ma ne vale la pena, in cima la guglia di uno stupa dorato, ai piedi tutta la città col Nam Khan che si perde nel Mekong, lontano tra gli alberi della foresta il luccichio della cupola dorata di un tempio, seduto con le spalle appoggiate alla base dello stupa un ragazzo occidentale in estatica contemplazione.
Discesa dall’altro versante, due monaci sorridenti e un monastero silenzioso, statue dorate a raccontare episodi della vita di Buddha, una bellissima campana a tubo tutta rosso e ricami dorati, il batacchio per suonarla è lì di fianco ma resisto alla tentazione.
Ore 08:30
Thong, ma quanti monaci ci sono a Luang Prabang? Tre o quattrocento – risponde la nostra guida mentre attraversiamo il mercato, così tipico che più tipico non si può: cesti traboccanti di frutta esotica, cassette di verdure ancora umide di fresco, sacchi di fagioli colorati, vassoi di riso candido, patate ammonticchiate per terra, pezzi di carne sanguinolenta, tranci di pesci enormi, rane vive, cose che non sai cosa sono né tantomeno come si mangiano, purtroppo niente Lao Coffee, manca la corrente – e il palazzo reale? – forse domani, questa mattina non c’è elettricità.
Ore 09:00
Il termine Vat – dice Thong – indica un monastero con aule di studio e di meditazione, dormitori, cucine, templi per pregare – e quanti ce ne sono a Luang Prabang? – una volta più di 100, oggi una trentina ma ne vediamo solo qualcuno – peccato penso io, meno male commenta mia moglie.
Il Vat Visoun
All’ombra di un grande ficus un Buddha immancabilmente spennellato d’oro sta seduto in meditazione protetto dal serpente a nove teste, è l’ingresso al Vat Visoun, restaurato grazie al contributo degli Stati Uniti dice un cartello.
Qui lo chiamano il tempio del melone – dice Thong – per via della forma di mezzo melone dello stupa lì di fianco, lo chiamano anche il tempio della tetta perché lo stupa è stato fatto costruire da una regina – aggiunge malizioso.
Al suo interno una sola donna, occidentale, seduta in meditazione ai piedi dell’altare su cui troneggia una grande statua di Buddha circondato da decine di altri Buddha più piccoli, sul retro dell’altare un cimitero di statue di legno accatastate piene di polvere rovinate abbandonate – sono state portate qui da altri templi andati distrutti, aspettano i soldi per il restauro.
Nel cortile, sotto una tettoia, una lunga e sottile barca di legno – è una barca da competizione e questo è il posto della scimmia – dice Thong indicando il disegno sulla punta della prua – è tipico delle barche di Luang Prabang, qui si siede un ragazzo a far da bilanciere, quando andiamo a Vientiane per le gare dicono arrivano quelli delle scimmie – e sorride orgoglioso.
Il Vat Mai Souvannapoumaram
Questo è il Vat Mai Souvannapoumaram, era il tempio dei re del Laos ed è uno dei più belli di Luang Prabang – ed in effetti se il tetto a cinque falde tegole rosse profili bianchi e naga dorati sugli spigoli colpisce da lontano, la veranda all’ingresso è una esuberante sinfonia di colori, le robuste colonne nere sono uno sfavillio di stencil dorati, la parete d’ingresso è un unico bassorilievo rappresentante scene della vita di Buddha, tutto in oro naturalmente, dal soffitto rosso cardinale ravvivato da figure in foglia d’oro pendono due incongrui lampadari liberty, all’interno oltre al grande Buddha altre decine di statue di tutte le dimensioni, foto di santi monaci, pareti rosse con centinaia di minuscole statuette di Buddha, campane abbandonate lungo la parete, intarsi d’oro dappertutto: sì, bello!
Il tempio Vat Xieng Thong
Rimetti le scarpe e via per le stradine verso il Vat Xieng Thong – il più bel tempio di Luang Prabang – dice Thong – e non per via del nome – sorride ironico.
Il tetto è composto da sette falde sfalsate di tegole scure che quasi toccano terra come una grande tenda canadese, pareti nere completamente coperte da intarsi dorati, non c’è uno spazio vuoto o un attimo di respiro, all’interno oltre a un grande Buddha uno spettacolare gong nero appeso a un sostegno rosso, il principe – sì è il principe ci sussurra Thong, stanno girando una fiction – il principe, appunto, accarezza a due mani il centro del gong e tutta l’aria vibra come quando si accarezzano i bordi dei bicchieri di cristallo, la principessa è bellissima, abito dorato, grandi orecchini pendenti e capelli raccolti a chignon in cima alla testa – sì ma è vietnamita – commenta Thong un po’ infastidito dal mio apprezzamento, mia moglie scuote la testa.
Attorno altri tempietti con pareti rosse abbellite da figurine in vetro colorato, lo sguardo severo di un monaco, beccato, ho fatto la foto al famoso Buddha reclinato, non si può, stupa ricoperti di maioliche risplendenti, tetti sostenuti da mensole luccicanti, muretti di un bianco abbacinante, forme e colori si confondono nella calura di mezzogiorno.
Ore 16:00
Giro pomeridiano, a zonzo lungo strade fiancheggiate da case in stile coloniale francese, il legno scuro è ingentilito da rigogliosi cespugli di fiori rossi, tralci ingarbugliati di buganvillea viola, lussureggianti felci corna d’alce, un bambino accovacciato sulla riva fangosa del Khan pesca con un legnetto lungo un metro, il ritmo di un tamburo si alterna agli eeeh – oooh dei rematori, arriva una barca sottilissima che fila veloce sull’acqua giallastra, sono una cinquantina a pagaiare vigorosi – guarda, c’è davvero la scimmia sulla prua della barca! – fra quattro giorni ci saranno le gare a Luang Prabang, noi non ci saremo, peccato.
Ore 18:00
E’ ancora presto per la cena, che facciamo? Io mi riposo, dice lei – ok, io allora vado a fare un giro. Uno dei tanti Vat, il rintocco evocativo di un gong, un cane nero sdraiato a prendere il fresco sulla veranda, moquette verde sul pavimento, un giovane monaco occhiali rotondi da intellettuale mi invita a entrare – se vuole può assistere alle preghiere, sì, può fare anche foto – i monaci arrivano alla spicciolata, chi compunto, chi distratto, c’è l’orologio ben visibile, ore 18:15, statua di Buddha con fascia dorata, una vecchia e cinque ragazze si inginocchiano in fondo alla sala, hanno libretti (e cellulari) come quelli delle nostre chiese, la preghiera è tutta un canto, non ci sono strumenti ad accompagnarlo, quando dopo un quarto d’ora esco la nenia ipnotica mi segue a lungo per la strada.
Ore 20:00
Cena al mercato tra il fumo dei grill, il chiasso dei turisti e i salti di spavento quando un cane ti passa tra le gambe sotto la panca, ritorno tra banchetti di dolci ai bordi della strada e gechi rosa sui muri attorno alle luci dei lampioni. Nel tempio stanno ancora cantando.
Cresciuto, tanti anni fa, sui romanzi di Kipling, Salgari e Verne, ho ritrovato l’anno scorso su un mio quaderno delle elementari un tema che descriveva un fantastico viaggio in piroga su un fiume nel cuore della giungla indiana. È da lì che evidentemente è nato il mio amore per le culture del sudest asiatico, l’India in primis, e per i fiumi lontani e le foreste oscure a partire dalla mitica Amazzonia.