Ilaria Mavilla, dall’emigrazione tunisina alla periferia fiorentina

Abbiamo intervistato Ilaria Mavilla, eclettica autrice del romanzo “Miradar” pubblicato da La Feltrinelli l’anno scorso. Trentenne, di origine tunisina, ha una laurea in filosofia ed è una grande amante dei viaggi. Attualmente tiene corsi di sceneggiatura presso la Scuola del Cinema Anna Magnani di Prato ed è insegnante di tip tap.

Passi indifferentemente dalla scrittura di romanzi, alla sceneggiatura, alla danza…

Credo siano tutte facce della stessa medaglia, strumenti per raccontare e raccontarsi, finestre sui nostri mondi interiori. Credo sia questo che cerchiamo nell’espressione artistica. Quello che facciamo in realtà è creare, trasformare il dolore in slancio vitale, sia che lo si faccia col corpo che con le parole. Perché creare è emozionante. Anzi, direi che è necessario.

Il tuo primo romanzo Miradar nel 2011 ha vinto il concorso indetto da ilmiolibro.it ed è stato poi pubblicato da La Feltrinelli. Com’è nato questo romanzo?

Il romanzo è nato da un racconto che parlava di una ragazza che per pagarsi gli studi accettava di esibirsi in un locale, il Miradar, appunto. Era una riflessione su come lo sguardo degli altri ci determini, sulla seduzione e sul dolore. Poi, mentre scrivevo, mi sono resa conto che forse c’era qualcosa di più che chiedeva di venire alla luce, una specie di affresco di un’umanità esclusa. E ho provato a dipingerlo. Lavorare sul testo con un editor attento e sensibile, quale è Giuseppe Catozzella, è stato poi molto arricchente. E’ stato come soffiare sulla storia e vederla risplendere.

Le vicende si svolgono nelll’arco di una sola giornata attorno ad un albergo fatiscente. Una sorta di nonluogo, dove le persone non si incontrano veramente. Una metafora di solitudine ed emarginazione. Ti sei ispirata a qualche posto che hai visto veramente?

E’ sempre difficile a posteriori risalire alle fonti d’ispirazione, perché tutto si mescola e acquista nuova vita nella testa di chi scrive. Sicuramente il Miradar somiglia a certi luoghi della periferia fiorentina, luoghi di passaggio che attraversiamo in cerca di un altrove, metafore forse dei nostri spazi interiori presso i quali non sostiamo mai abbastanza. Credo che la scrittura possa, o forse debba, farsene carico.

Hai realizzato per la Scuola del Cinema Anna Magnani il documentario “Appunti di viaggio” sull’emigrazione dalla Tunisia all’Italia. Puoi raccontarci com’è nato e come s’è sviluppato questo progetto?

Qualche anno fa ho avvertito l’urgenza di fare un viaggio a Tunisi, alla ricerca delle mie radici. Mio padre è nato lì da una famiglia emigrata dalla Sicilia in barca a remi alla fine dell’Ottocento, in cerca di lavoro. C’era tutto un intero quartiere della città abitato dagli immigrati siciliani e chiamato la Petite Sicile. Mi interessava molto capire i rapporti, prevalentemente di cooperazione, che si erano instaurati tra italiani e tunisini in quel periodo storico. È inquietante pensare che quel braccio di mare che è stato la salvezza di molte famiglie italiane un secolo fa, sia oggi il cimitero di migliaia di giovani tunisini. Attualmente non resta molto di quel quartiere. Ho raccolto però tante testimonianze di ragazzi che volevano raccontarsi di fronte alla telecamera, raccontare le sperenze, le difficoltà del loro paese. Il mio progetto originario era un tantino ambizioso. Volevo creare uno spettacolo con una parte video e una parte dal vivo, avvalendomi di attori di diversa provenienza all’interno dell’area mediterranea. Non l’ho realizzato per ovvie ragioni economiche. Ma chissà…

Qual è l’attuale situazione del Paese?

Il documentario l’ho girato nel 2008 e da allora purtroppo non sono più tornata a Tunisi. Ma ho un caro amico col quale sono rimasta in contatto. Le notizie che mi arrivano non sono confortanti. Sembra che la Rivoluzione abbia lasciato un vuoto che troppo spesso viene riempito dai militari o dalla polizia. Certo, se il modello democratico al quale il paese aspira è quello occidentale, è difficile pensare a un rinnovamento autentico.

Hai viaggiato molto, soprattutto durante gli studi universitari quando lavoravi per una compagnia di musical. Cosa rappresenta per te viaggiare?

Di ogni viaggio mi rimane un colore, un sapore. Spesso mi dimentico i nomi dei luoghi in cui sono stata, ma mai mi dimentico gli incontri che ho fatto. Per me è soprattutto questo il valore del viaggio. Mi piace, per quanto possibile, mimetizzarmi in un nuovo tessuto sociale, capire chi ho di fronte, come pensa, come vive. Credo che l’atteggiamento virtuoso del viaggiatore sia l’arrendersi (alla cultura dell’altro) e catturare. Che poi è anche l’atteggiamento dello scrittore. A volte, anche attraversare a piedi il proprio quartiere può trasformarsi in un viaggio.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Hai qualche viaggio in programma?

Sto scrivendo il mio secondo romanzo che credo sia tristemente attuale perché trae ispirazione da un articolo apparso qualche tempo fa su l’Unità, intitolato: “Il silenzio dei padri per le Notti di Arcore”, e che è anche alla base di uno spettacolo teatrale, “Senza gioia”, che andrà in scena il 9, 10, 11 maggio al Teatro Manzoni di Calenzano (FI). Poi sto scrivendo alcuni racconti per l’antologia Decameron 2013, curata da Marco Vichi, che coinvolge una trentina di giovani autori toscani. Idee di viaggio? Faccio fatica a scegliere tra i miei viaggi quello che più ho amato. Dal nord-est brasiliano, a Cuba, passando per i paesi magrebini… tornerei in ognuno di questi posti. Ma anche senza andare lontano, siamo circondati dalla bellezza. L’estate scorsa ho visitato il catanese e il ragusano e sono rimasta incantata.

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