Machu Picchu, sul tetto di un mondo scomparso

Dalla cima di questa montagna ci si sente sul tetto del mondo. L’aria è frizzante e le facce finalmente distese dopo la lunga arrampicata. Appena visibile il ponte che abbiamo attraversato ieri, ed è incredibile come siamo arrivati a piedi da lì.

Esistono vari modi di raggiungere la città perduta di Machu Picchu, l’attrazione principale del Perù. Da una parte l’Inca Trail, un trekking di quattro giorni lungo i maggiori siti archeologici della zona che culmina con l’ascesa alla cittadella. Un’esperienza indimenticabile con un prezzo di listino di 500 dollari ed una lunga lista d’attesa. All’estremo opposto dello sforzo fisico vi è la via Cusco-bus-treno-bus-camminata di 200 metri-foto ricordo-check nella lista di cose da fare prima di morire. Costo: 200 dollari. Per viaggiare con un budget ridotto è necessario essere creativi, flessibili ed instancabili. In questo modo siamo riusciti a farcela per 100 dollari. L’entrata al sito e la scalata a Huayna Picchu sono inclusi, l’acqua e le banane per i crampi no.

Solo ieri mattina mi trovavo nel Cusco, la capitale dell’impero Inca insieme a Sergio ed Hezio. I cappucci calati nella mattina fredda aspettando un minivan in ritardo. Quando finalmente il pulmino accosta sentiamo di avercela fatta. Le sette ore di crociera meriterebbero un capitolo a parte, ma alla fine lo sgarbato autista ci scarica tutti interi alla centrale idroelettrica. Un treno blu marchiato Peru-Rail sbuffa al mio fianco portando vagonate di turisti al villaggio di Aguas Calientes, piccolo centro costruito sotto la montagna sacra e tappa inevitabile per raggiungere Machu Picchu.

Camminiamo lungo la ferrovia e siamo la versione cresciuta dei ragazzini di “Stand by me”. Stessi ponti di legno da attraversare a passi larghi e stesse conversazioni di ragazze. Loro camminavano per diventare adulti, noi invece per tornare bambini. In nove chilometri di passeggiata abbiamo tempo di riassaporare le elementari, celebrare l’impero mayaaztecaeinca detto in un fiato e ricordare l’immagine sbiadita di un sussidiario: Machu Picchu, la città perduta degli Inca e Huayna Picchu, la montagna sacra, alle sue spalle.

La notte sta calando sopra Aguas Calientes quando terminiamo la nostra sgambettata. Il fiume rabbioso e nero unica colonna sonora. Quando l’allarme gracchia alle quattro e mezza del mattinio non mi sembra ancora di avere smesso di camminare. Sorseggiamo il primo e migliore caffé della giornata mentre le stanze spente degli hotel esplodono di turisti addormentati. La loro sveglia suonerà in tempo per la colazione a buffet e per il bus a Machu Picchu. Iniziamo l’ascesa prima che albeggi. I gradoni si arrampicano sulla montagna attraversando la foresta e le gambe vanno da sole inseguendo un sogno di bambino. Tagliamo i tornanti che i pullman ascendono senza sosta, carichi di persone col naso al finestrino. Arriviamo al checkpoint una manciata di minuti prima dell’apertura del sito. Un gruppo di rugbisti argentini flette i muscoli alla guida che non ha ancora consegnato le loro entrate.

Alle sei e trenta i tornelli aprono. Cammino rapido finché la vedo materializzarsi davanti ai miei occhi. Il tempo è perfetto, nessuna nube in vista. Solo il verde scuro delle foreste che ricoprono le montagne circostanti in contrasto col verde brillantissimo dei prati all’interno della cittadella. Le ali del tempio del condor spuntano dal lato destro. La cima di Huayna Picchu fa da custode alle distinte casupole, intervallate da giardini a terrazza. Sfioriamo i muri di pietra perfettamente assemblati. Un paio di lama regalano un paio di scatti memorabili ai viaggiatori ancora assonnati.

Raggiungiamo l’entrata della montagna. La scalata è impegnativa ed il numero di turisti ammessi è limitato a 400, divisi in due turni. Mangio gli scalini senza guardarmi indietro. Il sorpasso della turista nipponica con tacco dodici rimane nitido nei replay della mia memoria. Aggrappato alla corda con entrambe le mani non mi arrischio a sfilare la macchina fotografica dallo zaino per immortalarla. Un passo falso, un tacco rotto ed un volo di sotto per i titoli di coda. Una turista ha perso la vita proprio ieri. Parlassi giapponese le chiederei in quale dei millemila gradini ha capito di non avere la calzatura adatta. Non la rivedrò sulla vetta, ma spero se la sia cavata con un paio di vesciche.

Machu Picchu è costruita su una cresta circondata da altissime montagne. Gli storici continuano ad interrogarsi sulla sua funzione. Le guide raccontano storie fantasiose per non turbare i turisti più giovani. Noi ci limitiamo a contemplarne la bellezza. Seduti coi piedi a penzoloni nel vuoto sentiamo l’energia passare attraverso le nostre schiene mentre il fumo avvolge l’aria. La guardia di turno, una perfetta faccia Inca bruciata dal sole, si alza di scatto. Richiama due turisti statunitensi che hanno già aspirato metà del loro spinello. Mi chiedo quante volte questa scena si sia ripetuta negli ultimi seicento anni.

Guardo in giù. Lo stesso ponte rosso che abbiamo attraversato ieri.
2000 scalini fino a Machu Picchu.
3500 gradoni per tornare ad Aguas Calientes.
Nove chilometri camminando contro il tempo alla centrale idroelettrica.
Sette ore di bus fino al Cusco con un autista che ci odia.
Siamo solo a metà del viaggio.

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