Siamo tutti migranti: quando viaggiare è l’unica salvezza

“Sono 3000, sono arrivati, sono tutti sulla banchina, stanchi, affamati, con in mano il “libretto rosso” (che li bolla come analfabeti) o il “foglio giallo” che dà qualche maggiore speranza; ma per tutti c’è ora la quarantena, un’attesa lunga, snervante; e per alcuni – che prima di partire hanno venduto case e podere, o si sono indebitati per fare il viaggio – non è solo stressante ma è un’attesa angosciante…”

Sembra la cronaca di una giornata a Lampedusa, invece il testo è tratto dal racconto di un giornalista che nel 1920 documentava l’emigrazione italiana in Belgio. Proprio con questo Paese, il nostro governo siglò un accordo che prevedeva 24 quintali di carbone fossile all’anno per ogni italiano inviato a estrarlo dalle miniere dove nessun belga era più disposto a scendere. Gli Stati Uniti, altra meta privilegiata dell’emigrazione nazionale, hanno visto sbarcare 5.691.404 italiani tra il 1876 e il 1976. Nello stesso periodo dall’Italia sono partiti in totale oltre 26 milioni di connazionali, diretti soprattutto, oltre che nelle Americhe, in Australia e nel Nord Europa.

Andavamo dove i locali non volevano più fare i minatori, i muratori, i camerieri o i facchini. Oggi si parla invece di “fuga dei cervelli”, giovani laureati che in Italia sono costretti a interminabili stage non retribuiti, o a elemosinare incarichi degradanti e scarsamente retribuiti, mentre all’estero si vedono riconosciuti i meriti per cui hanno tanto studiato. Secondo l’Anagrafe Italiani Residenti Estero (Aire), ben 316.572 giovani non ancora quarantenni hanno lasciato il Paese tra il 2000 e il gennaio del 2010, ma vari sondaggi indipendenti indicano che solo un espatriato su due si iscrive normalmente all’Aire. Una recente ricerca di Confimpreseitalia, infatti, ha stimato che i giovani emigranti sono ogni anno almeno 60.000.

Siamo un popolo di migranti, oggi come allora, ma quando a bussare alle nostre porte sono gli altri tendiamo a dimenticarcelo e a individuare nei flussi migratori diretti verso il nostro Paese solo un aumento delle attività criminali e una riduzione dei posti di lavoro. Non è mia intenzione auspicare l’apertura delle barriere senza condizioni, ma le recenti statistiche e il dramma consumatosi al largo di Lampedusa solo un mese fa – il naufragio costato la vita a 366 persone – dovrebbe almeno indurci a valutare il fenomeno della migrazione nella sua complessità, cioè non con una mera valutazione di “dentro” o “fuori”, ma soffermandoci sui perché e sulle modalità, oltre che sulle conseguenze umane e sociali. Perché migranti lo siamo tutti, direttamente o meno: dalle migrazioni antiche e recenti è infatti stata plasmata la società in cui viviamo, e chiudere la porta in faccia al Sud del mondo nella speranza che prima o poi si stanchino di bussare non può che paragonarsi al tentativo di tappare una perdita su una nave con un dito.

Dall’Africa e dal Medio Oriente i flussi migratori non si sono mai interrotti da quando, a partire dal secondo dopoguerra, il mondo industrializzato ha ritenuto opportuno estendere la propria sfera di influenza sui paesi produttori di materie prime. A intensificare gli sbarchi clandestini contribuiscono conflitti a crisi umanitarie di cui non possiamo dichiararci estranei, se non per complicità, almeno per umana solidarietà.

Sono 22 i documenti sottoscritti dall’Italia con Libia, Tunisia, Algeria ed Egitto tra trattati, accordi, protocolli, addendum a protocolli, memorandum, “scambi di note” e “processi verbali” per la riammissione di migranti e la cooperazione di polizia. Ma di otto di questi documenti le nostre autorità non hanno reso pubblico il contenuto. Secondo un recente rapporto di ricerca sul “diritto alla protezione” nel nostro Paese, questi accordi bilaterali “spesso assumono la forma di intese a carattere tecnico, sottratte a ogni controllo parlamentare, e non sempre sono pubblici, comportando un’importante mancanza di trasparenza”.

Quantificare gli immigrati irregolari in Italia non è semplice: un documento redatto dal Ministero dell’Interno nel 2005 riportava valutazioni che oscillavano tra i 200.000 e gli 800.000 individui. Sulle coste si registra inoltre un aumento dei minori che raggiungono il nostro Paese senza l’accompagnamento di un adulto: solo a Lampedusa dall’inizio dell’anno sono arrivati 1300 ragazzi e ragazze tra i 4 e i 17 anni (su un totale di 12.500 migranti), e sull’isola non esistono ancora delle sistemazioni riservate ai minori.

Quale grado di disperazione possa spingere migliaia di famiglie a inviare i propri figli verso un simile destino è percepibile nelle parole di un rifugiato somalo giunto in Italia dopo aver attraversato il deserto e il Mediterraneo: “Non siamo stupidi, né pazzi. Siamo disperati e perseguitati. Restare vuol dire morte certa, partire vuol dire morte probabile. Tu che sceglieresti? O meglio cosa sceglieresti per i tuoi figli? Cerchiamo salvezza, futuro, cerchiamo di sopravvivere. Non abbiamo colpe se siamo nati dalla parte sbagliata e soprattutto voi non avete alcun merito di essere nati dalla parte giusta.”

Somali erano anche i ragazzi con cui due anni fa ho condiviso il viaggio attraverso il Sudan con una nave cargo sul Nilo. Scappavano dalla guerra e dalla carestia, volevano imbarcarsi per l’Italia dopo aver attraversato la Libia che all’epoca era nel pieno della guerra civile. Ricordo una sera sotto le stelle. Un ragazzo a cui un mitragliatore pesante di fabbricazione italiana aveva staccato una gamba parlava in un inglese stentato dei suoi progetti. Voleva raggiungere il nostro Paese, imparare la lingua, iscriversi in qualche scuola e imparare un mestiere. Poi avrebbe deciso se proseguire in Europa o tornare in Somalia. Due giorni prima si era tolto i vestiti per proteggere il mio bagaglio dalla pioggia mentre io non c’ero. Io, invece, non ebbi nemmeno il coraggio di prepararlo all’accoglienza che avrebbe trovato nella mia patria.

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