In autostop fino al Kalahari: viaggiare in Africa è sempre un safari.
Volevo scrivere un pezzo sulle tribù San, che sono state letteralmente deportate dai loro villaggi nel Kalahari verso centri di ricollocamento sprovvisti di qualunque risorsa. Avevo contattato Jumanda, un attivista che si era molto dato da fare per portare la faccenda in tribunale, e ci siamo messi d’accordo per incontrarci a Kaudwane, un villaggio sperduto ai margini del deserto. I miei amici mi avevano portato da Saint Lucia fino a Johannesburg in macchina. Da qui ho preso un autobus per Gabarone, la capitale del Botswana. Poi sono sceso in strada zaino in spalle ad attendere un autobus che mi portasse alla stazione centrale, invece a fermarsi sono stati due ragazzi tswana che si sono offerti di darmi un passaggio in macchina: “Qua in Botswana se sei fermo in mezzo alla strada qualcuno prima o poi si ferma sempre!”
Dalla stazione ho preso un pullman per Molepolole, a circa cinquanta chilometri verso l’interno del Paese. Poi è stato il turno di un minibus per Lethlakeng, che mi ha lasciato in una buca di sabbia e polvere circondata da gente che aveva tutta l’aria di aspettare qualcosa. Quando mi sono avvicinato per chiedere informazioni un omone loquace e premuroso mi ha detto semplicemente ‘stammi vicino, ti aiuto io’. Qualche minuto più tardi io e il mio zaino venivamo issati sul retro di un furgone insieme a mezza dozzina di altre persone. In mancanza di trasporti pubblici, in Botswana la gente ricorre ampiamente all’autostop, che viene corrisposto in cambio di un piccolo contributo per la benzina basato sulla distanza da percorrere.
Case e asfalto avevano lasciato il posto a sabbia e distese vuote. Io stavo aggrappato al mio zaino sul retro del furgone, diretto verso un luogo che avrei fatto fatica a ritrovare su una mappa. Dopo circa un’ora siamo arrivati a Salajwe, un altro nome in mezzo al nulla. Due ragazze, dirette anche loro proprio a Kaudwane, mi hanno accompagnato ad un incrocio dove trovare un altro passaggio. Quando ho chiesto se avrei trovato un posto dove dormire Maghiro, la maggiore, mi ha risposto “ce l’ho io un posto per te, è stato il cielo a mettermi sulla tua strada!”
Quando una macchina si è finalmente fermata per darci un passaggio era quasi sera. Dopo un’ora e mezza tra sabbia e polvere, buche e sassi, eravamo finalmente arrivati al villaggio. Facendosi strada tra erbacce e baracche in lamiera, Maghiro mi ha portato fino alla baracca del suo amico Aaron, che in pochi minuti mi ha preparato una tenda in mezzo al villaggio, nel pieno di una distesa sabbiosa senza fine che proseguiva fino al cuore del Kalahari. Abbiamo mangiato carne di pecora e ugali (una specie di impasto farinaceo semi-crudo usato al posto del pane). Poi il buio più totale. A Kaudwane non c’è elettricità. Infine il freddo. Molto freddo.
La notte non era più riposo e conforto, era diventata un gelido isolamento di cui non desideravo altro che la fine. Ma ero lì, ce l’avevo fatta, e all’alba mi bastava questo pensiero per ritrovare la forza che non mi aveva restituito il sonno. L’unico problema era che la persona che ero venuto a scovare non si trovava lì: Jumanda si era spostato da suo cugino a Ghanzi per qualche giorno, a circa 500 chilometri in direzione nord-ovest.
Leggi la puntata precedente: in autostop fino al Kalahari.
Vai alla puntata successiva: fuga dal deserto del Botswana.
Il percorso:
Laureato in Giornalismo, il mio limbo professionale mi ha portato dagli uffici stampa alla carta stampata, per poi approdare al variopinto mondo della comunicazione digitale. Ho vissuto a Verona, Zurigo, Londra, Città del Capo, Mumbai e Casablanca. Odio volare, amo lo jodel e da grande voglio fare l’astronauta.