Ho una camera con un balcone che si protende verso Piazza Talaat Harb. Mi è sempre piaciuta questa parte del Cairo. Pochi passi per la stazione dei minibus, pochi passi per il Museo Egizio, pochi passi per Piazza Tahrir, dove tre anni fa – l’ultima volta che sono venuto nella capitale dell’Egitto – giovani donne e studenti si radunavano per intonare slogan sulla libertà e i diritti civili.
Questa volta, al mio arrivo, Piazza Tahrir era l’ombra di un simbolo che ha smarrito il suo significato. Era deserta.
Ma oggi no. Oggi, martedì 3 giugno, la piazza è tornata a riempirsi con il fragore di migliaia di uomini e donne. Bambini con il volto dipinto con i colori della bandiera egiziana sventolano le bandierine che riportano gli stessi tre colori. La gente balla per strada sulle note di Boshret kheir (“Buon augurio”), la canzone che negli ultimi giorni è stata continuamente propagata dagli altoparlanti piazzati ad ogni angolo delle strade.
Oggi si festeggia un nuovo faraone, l’uomo che ha cacciato gli islamisti dalle sale del potere, che ha restituito speranza al Paese. Il comandante dell’esercito – “ex” solo per motivi formali voluti dalla nuova costituzione – che promette stabilità e sicurezza. Abdel Fattah Al-Sisi. Il vincitore delle ultime elezioni presidenziali, le seconde dall’inizio della rivoluzione nel gennaio 2011. Colui che ha raccolto oltre il 90 per cento dei voti. Voti, però, che sono stati consegnati con grande fatica da poco più del 40 per cento dell’elettorato.
Già prima che le elezioni avessero inizio, lunedì 26 maggio, si sapeva chi ne sarebbe emerso vincitore. Non si sapeva però con quali numeri. Hamedeen Sabahi, il politico dietro cui si è radunata la sinistra egiziana e le sponde più liberali del Paese, era in campo giusto per far sembrare che si trattasse di vere elezioni. Il vero oppositore di Al-Sisi è stato il boicottaggio.
Convinti che l’unico presidente d’Egitto sia Mohammed Morsi, accusato di tradimento e cacciato dal suo trono da Al-Sisi con la forza dell’esercito – intervenuto sull’onda della contestazione popolare – i Fratelli Musulmani, già etichettati come gruppo terroristico dopo gli attentati seguiti alla deposizione di Morsi, hanno incitato la popolazione a disertare le urne.
Da luglio, sono centinaia gli scontri che sono stati loro imputati, molti dei quali hanno causato la morte di poliziotti e soldati. Da parte dei portavoce del movimento, però, non è mai arrivata alcuna rivendicazione. Non ha bisogno di rivendicazioni, invece, la violenta repressione della manifestazione dei Fratelli Musulmani di agosto, durante la quale centinaia di manifestanti disarmati sono stati uccisi dalle forze armate agli ordini di Al-Sisi.
Non tutti i disertori delle urne, però, sono da ritenersi affiliati alla fratellanza. I giovani, gli studenti e le studentesse, il cuore della rivoluzione di tre anni fa, non si sono fatti sentire. Delusi dal governo ad interim di Adly Mansour, oltraggiati dalle centinaia di arresti tra attivisti, giornalisti e intellettuali, il futuro del Paese ha deciso che non avrebbe partecipato al processo democratico. Non in questo modo.
Tra i vari interventi liberticidi che i giovani contestano al governo egiziano, c’è la famigerata legge anti manifestazioni, pensata per impedire le aggregazioni dei Fratelli Musulmani e ampiamente utilizzata per scongiurare qualunque tipo di contestazione popolare, pena l’intervento spietato dell’esercito e l’arresto indiscriminato dei partecipanti.
E se qualcuno pensava che una volta eletto il nuovo presidente la situazione si sarebbe normalizzata, occorre prima capire cosa sia “normale” in Egitto. Al-Sisi – del cui programma politico non si sa quasi nulla, che non è mai apparso in televisione o nelle piazze, che non ha mai rilasciato un’intervista – ha già ripetuto più volte che la sua priorità è la sicurezza, e che non ammetterà alcun disordine che possa mettersi sulla strada della ripresa dello stato. La legge contro le manifestazione continuerà ad essere applicata. I reati d’opinione continueranno ad essere perseguiti. E questo, in Egitto, è perfettamente normale.
“Non siamo pronti per la democrazia – mi ha confidato un amico ai tavoli di un shisha bar una volta – noi egiziani abbiamo bisogno di un leader forte, che ci comandi e ci protegga.”
E così il primo giorno, quando i voti non facevano contare più di sei milioni di partecipanti su una popolazione di elettori di 56 milioni di individui, alle dieci di sera è giunta la prima sorpresa: il primo ministro Ibrahim Mehleb ha dichiarato che il giorno successivo sarebbe stata festa nazionale, nella speranza di portare i dipendenti statali alle urne. Intanto i salafisti del Nour Party – che sarebbero musulmani ultra-conservatori e nessuno si spiega il loro appoggio ad Al-Sisi, nemmeno i loro membri – accompagnavano in macchina anziane e disabili ai seggi elettorali, spesso molto distanti dalle loro abitazioni.
Poi l’annuncio che tutti si aspettavano: le elezioni, programmate per due giorni, sarebbero proseguite anche mercoledì. Un giorno in più che non ha alzato di molto la soglia di partecipazione, ma che comunque è riuscito a portare oltre venti milioni di voti al nuovo faraone di ispirazione nasseriana e di stampo mubarakiano.
Il primo presidente a ricevere l’incarico dal suo collega uscente nella storia dell’Egitto (fino ad ora i capi di stato si erano sempre succeduti in seguito a decessi o rivoluzioni).
Dopo tre anni di rivolte, contestazioni, cambi di potere e incertezze, l’economia del Paese è in ginocchio. I cugini arabi e gli alleati occidentali sono pronti a fornire nuovi fondi, ma prima vogliono vedere ristabilito l’ordine. Io non mi sono mai sentito in pericolo e in tutta onestà non posso che confermare che l’Egitto sia una destinazione sicura per tutti i viaggiatori, soprattutto se si prevede una certa pianificazione anticipata. Ma il nervosismo è palpabile, e quando due gruppi cominciano a lanciarsi sassi e bottiglie – come è accaduto proprio in Piazza Talaat Harb durante la mia permanenza – non risparmiano certo i malcapitati di turno, per quanto estranei allo scontro. Allora, forse, Al-Sisi è davvero l’unica soluzione possibile, o meglio… l’unica soluzione disponibile.
Un popolo affamato non chiederà altro che pane. Un popolo spaventato non vorrà altro che sentirsi al sicuro. Gli egiziani hanno fame e paura. Al-Sisi si è presentato con promesse di ripresa economica e un esercito a lui fedele. Gli ideali della rivoluzione di tre anni fa sono impalliditi di fronte a queste schiaccianti verità.
Mentre mi portava verso la stazione ferroviaria di Ramses, l’autista del taxi mi ha chiesto se avevo partecipato ai festeggiamenti delle sera precedente. Ero in Piazza Tahrir, gli ho risposto, e lui? Era contento per il presidente Al-Sisi?
“Sì, contento. Al-Sisi è onesto, è bravo… Come Mubarak. Anche lui era bravo.”
Laureato in Giornalismo, il mio limbo professionale mi ha portato dagli uffici stampa alla carta stampata, per poi approdare al variopinto mondo della comunicazione digitale. Ho vissuto a Verona, Zurigo, Londra, Città del Capo, Mumbai e Casablanca. Odio volare, amo lo jodel e da grande voglio fare l’astronauta.