Fiore nel Cemento, Etiopia

Questa settimana vi proponiamo un altro testo di Marco Pastore coordinatore progetti CIFA ONLUS.

FIORE NEL CEMENTO

Addis Ababa, Etiopia

Nel 2004 s’intitolava così la canzone scritta dagli STATUTO, storica band Mod torinese che si era data il nome dell’omonima piazza della città che il movimento Mod aveva scelto come luogo di incontro.

Mod, modernismo. Addis Ababa, nuovo fiore.

Torno ad Addis dopo poco più di sei mesi ed il Nuovo Fiore è sempre più intrappolato in un orribile serpentone di asfalto e cemento che lo lacera prendendo i toni del rosso di questa terra, che nella stagione delle piogge scorre ovunque. Il rosso delle ferite che la modernità sta infliggendo a questa città che ha avuto la pretesa di essere un fiore e che di questo passo, al più, sarà un fiore nel cemento.

Ragioni del progresso quelle che stanno stravolgendo l’assetto urbanistico, geologico, ma soprattutto sociale di un’Africa che emula un altro mondo, fatto di grattacieli, di vie di comunicazione, di palazzacci, di infrastrutture che hanno la pretesa di spianare la strada alla modernità, al benessere economico, al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Però io proprio non mi do pace.

Ma possibile che esista un unico, uniformante modello per arrivare al benessere? Possibile che esista solo il nostro e che comunque non sia possibile almeno adattarlo a forme di vita sociale, a tradizioni altre?

Addis Ababa. La attraverso a bordo del taxi del solito, mitico, Abraham, punto di riferimento ormai irrinunciabile per i miei spostamenti in città. Sono esterrefatto. Quella che durante i giorni della mia prima venuta qui (quasi quattro anni fa) nella capitale dell’Africa – come  la definiscono gli Etiopi – era un cantiere di cui non si potevano ancora immaginare i risultati, ha preso la forma di una circonvallazione moderna, a tratti forse di una tangenziale, finanche di un’autostrada che squarcia in due interi quartieri, senza tenere conto di nulla.

Altro che “Not in my back yard”, formula inglese con cui si catalogano tutti i tentativi di comitati di cittadini organizzati che provano ad opporsi ad opere di vario genere (dall’alta velocità, agli inceneritori, ai termovalorizzatori – per restare a recenti esempi italiani) e che significa “non nel mio giardino”. Giardino. Fiore nuovo. Cemento.

Ad Addis le cose funzionano più o meno così. Si stabilisce che una strada deve essere fatta. Si fanno i rilievi per capire dove sia meglio farla passare; si prende la decisione; si cerca di capire a quante persone sia necessario fornire un indennizzo (e stiamo ovviamente parlando dei ricchi); poi si arriva con i bulldozer; si comunica alle persone che hanno 5 minuti di tempo per raccogliere le loro cose e abbandonare le proprie case. Si inizia a spianare.

Nel giro di qualche mese le imprese e gli operai cinesi – che ormai detengono una percentuale impressionante di realizzazione delle opere infrastrutturali di tutta l’Africa – concludono i lavori ed uno sciocco cooperante che passa di lì circa 3 volte l’anno resta si stucco vedendo che interi “villaggi urbani” sono stati divisi da lingue di asfalto a 3 corsie per senso di marcia, senza alcun collegamento tra una parte e l’altra, con il risultato che si può assistere alle scene più improbabili. Scene che, se non fossero causa di un numero spropositato di incidenti stradali e quindi di morti, provocherebbero reazioni sospese tra tenerezza e ilarità.

Si vedono così bambini e ragazzi che attraversano l’autostrada sprezzanti di ogni pericolo per raggiungere la scuola o i compagni di gioco (che fino a qualche mese fa erano vicini di casa); donne e bambine, con le loro taniche di plastica, attraversare la strada per andare ad approvvigionarsi di acqua; pastori attraversare insieme alle loro greggi o al loro ciucchino che proprio non riesce a darsi pace di dover scavalcare uno spartitraffico di cemento alto quanto le sue zampe e che a tutti i costi vuole tornare indietro, atterrito dal rumore dei camion che gli sfrecciano a pochi centimetri, che gli suonano il clacson e sotto i quali rischia di finire schiacciato insieme a quei bambini, a quei ragazzi, a quelle donne con le loro figlie e al suo stesso padrone.

Rosso, colore del sangue, quello di cui la terra tinge questo serpente di cemento ed asfalto, colore delle ferite impresse a chi, per lasciar spazio a quella strada, ha perso la casa, ha visto allontanarsi i propri amici, il pozzo, il prato su cui brucare. Ha visto soprattutto spezzarsi quella rete di solidarietà che è propria delle economie di sussistenza e che sempre più sta diventando economia della disperazione, quella che vieta anche la solidarietà: perché davvero non c’è più niente da condividere.

Ad Addis non c’è neanche più la luce. Durante i giorni trascorsi in Etiopia la luce veniva erogata a zone alterne della città, prevalentemente di notte; sono stati più i giorni di cui non se ne poteva disporre che quelli in cui c’era. A meno che non si disponga di un generatore, l’elettricità è diventata energia rara. Manca perché manca l’acqua; i bacini artificiali sulle dighe del Nilo azzurro sono a secco. Non piove. Per un Paese la cui produzione elettrica è prevalentemente idroelettrica la scarsità di piogge ha significati funesti. Evoca drammatiche carestie.

Eppure la risposta che il Governo etiope si è impegnato a dare al Paese è, oltre all’ammodernamento della linea di distribuzione lungo la quale la dispersione è importante, la costruzione di quattro nuove dighe tutte sul Nilo azzurro. Continuo a non darmi pace. A non capire.

E così aumentano le strade, aumenta il numero di mezzi e di merci che vi circolano ed aumenta la velocità con cui tali merci vengono trasportate.

Ma quel bambino che di quella strada non ha fatto altro che il luogo in cui giocare, costretto a rimpiazzare un prato con una lingua di asfalto, il luogo ove far correre con il suo bastoncino di legno la vecchia ruota arrugginita di una bicicletta, non capisce proprio dove vadano queste merci, così tante e così veloci e perché alla sera, quando arriva a casa, nessuno si sia fermato per dare alla sua mamma quel tanto di che riempirgli il piatto.

di Marco Pastori, coordinatore dei progetti di Cifa

Potete inoltre scaricare gratuitamente la scheda in versione PDF dell’Etiopia cliccando il link seguente: Scheda Etiopia

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