Nel nord estremo dell’Honshū – l’isola principale del Giappone – si trova uno dei luoghi più affascinanti e meno conosciuti dell’arcipelago nipponico, lontano dalle tradizionali attrazioni turistiche e dalle principali arterie di traffico: si tratta dell’Osorezan, il Monte Osore o “Monte della Paura”, un cratere vulcanico che domina la penisola di Shimokita nella prefettura di Aomori.
La sua particolare conformazione e l’impatto visivo gli hanno valso l’appellativo di Monte dell’Inferno, e il folklore locale ha immaginato un percorso tra le varie dune di zolfo e di pietra per ripercorrere una vera e propria discesa tra gli inferi giapponesi.
E in effetti il panorama invita l’immaginazione: quando si arriva al monte, si è accolti da un violento odore di zolfo, e da un lago cristallino sulla sinistra della strada. Un ponte rosso attraversa un piccolo ruscello, indicando l’ingresso nel mondo dell’aldilà (tradizionalmente, il fiume degli inferi denominato Sanzu segna l’accesso ad un’altra dimensione).
Si accede poi al tempio – l’Entsuji, famoso tempio zen – e a questo punto si apre davanti agli occhi del visitatore una distesa arida di pietre, terra sulfurea e rivoli d’acqua che delineano il percorso da seguire. Il giallo e il grigio dominano indisturbati.
Mano a mano che ci si avvicina al tempio seguendo la strada lastricata, iniziano a scorgersi statue di Jizō, una delle divinità buddhiste più amate, il bodhisattva che viaggia tra gli inferni per salvare le anime dei dannati.
Accanto alle sue statue, in particolare nei periodi dei matsuri (le festività giapponesi) di luglio, si moltiplicano diverse offerte votive, girandole colorate, merendine, bibite, giocattoli per donare sollievo e gioia ai propri defunti. Ecco che trionfano i rossi dei mantelli e dei bavaglini di Jizo, donando un tocco acceso di colore al paesaggio infernale.
Una volta che si è arrivati al tempio inizia il vero percorso negli inferni, seguendo stradine in salita e in discesa tra i massi, incontrando sul proprio cammino dei piccoli altari votivi, delle statue del bodhisattva o degli stupa realizzati impilando delle pietre una sull’altra. Questi in particolare sono doni votivi per i mizuko, i bambini morti prima della nascita, e i genitori costruiscono questi piccoli monumenti di pietre per aiutarli in una rapida rinascita.
Il percorso continua fino a discendere in un’ampia radura di sabbia al fondo della quale si apre il lago. Siamo arrivati al Paradiso, e improvvisamente l’atmosfera cambia. L’aridità e la durezza del panorama precedente lascia ora il posto a un ampio specchio d’acqua, così trasparente da ricordare quella del mare, le cui onde risuonano rassicuranti sulla spiaggia gialla.
Leggermente in disparte, in mezzo al verde degli alberi, si possono scorgere sandali da pellegrino e pezze di tessuto legate ai rami; sono i doni che i vivi lasciano per le anime dei defunti, in modo che abbiano le scarpe per camminare verso il paradiso, e un piccolo pezzo di tessuto per asciugarsi il sudore durante il tragitto.
Se ci si siede sulla riva del lago, accanto alle offerte di girandole e di merendine, e ci si lascia cullare dal suono dell’acqua, si ha l’impressione di essere entrati in un’altra dimensione: di fronte agli occhi ora si aprono i fianchi verdi delle montagne al di là del lago, le vere sponde del paradiso. Si dice che, seduti su questo lato del lago, si possa ancora invocare il nome dei propri cari, intonandolo ad alta voce nella direzione del paradiso.
Lungo il tragitto di ritorno, ancora all’interno del perimetro del tempio, il visitatore più attento noterà delle tende celesti dinnanzi alle quali spesso una lunga fila di persone attende. Si tratta delle tende delle itako, antiche sciamane cieche (ora quasi del tutto scomparse) che promettono ai credenti un fugace incontro con i propri defunti: attraverso un rituale particolare infatti, esse invocano l’antenato e gli permettono di comunicare con i propri discendenti ancora una volta.
Può sembrare strano, ma non si tratta di credere o meno, si tratta di accettare questo rituale come un ultimo momento di cordoglio, un ultimo atto per salutare il proprio caro e poter simbolicamente elaborare il lutto. Le persone che aspettano, nel profondo, lo sanno che si tratta di un puro rituale, ma è il simbolo di un incontro che non potendo più avvenire nella realtà permette quantomeno un momento di consolazione.
Lasciare questo luogo è difficile. Così aspro all’inizio, sembra custodire il proprio animo più delicato solo alla fine del cammino, e dona a chi osa attraversare l’inferno la sensazione di poter davvero abbracciare i propri cari ancora una volta.
Mi chiamo Marianna, e sono antropologa, una definzione molto ambiziosa (e forse un po’ azzardata) per dire che l’antropologia è quello che voglio fare da grande. Una definizione più modesta sarebbe quella di ricercatrice, e una ancora più onesta quella di fanatica: fanatica del Giappone, ovviamente.
Mi sono laureata in Scienze delle Religioni a Torino e ho conseguito un dottorato presso l’EPHE di Parigi in Antropologia delle Religioni e Studi sull’Estremo Oriente, con un progetto di ricerca sullo sciamanesimo giapponese.
Ho condotto una ricerca sul campo in Giappone dal 2012 al 2014, tra il Kansai (Tokyo prevalentemente) e la prefettura di Aomori.
Dopo questa fantastica esperienza, ho lanciato un blog – Japan Soul Traveler – per condividere la mia passione e mostrare un aspetto differente del Giappone, e un modo diverso di viaggiare.