Qualche mese fa, quando l’idea di un viaggio nel Sud-Est asiatico era ancora in fase embrionale, io e mia sorella Elisabetta abbiamo iniziato a spulciare guide di viaggi, siti web, blog, riviste e quant’altro in cerca di informazioni sui posti da vedere e sulle cose da fare.
Ho notato subito che alcuni dei diari pubblicati su una delle community di viaggiatori più famosa in Italia [compresi noi, ndr] raccontavano di visite al Tempio delle Tigri, in Thailandia, un centro di conservazione della specie gestito dai monaci buddisti. Allegati i selfie di ordinanza: con la tigre che beve dal biberon, con la tigre che si fa accarezzare manco fosse un micio troppo cresciuto, con la tigre che si fa portare al guinzaglio e così via.
A me puzzava proprio questa cosa che un animale come la tigre, fiera per eccellenza, si facesse dare il biberon da un turista. E osservando quelle foto notavo come le tigri fossero quasi sempre incatenate e avessero anche lo sguardo un po’ assente. E siccome sono un’inguaribile curiosa sono andata a farmi un giretto sul web inserendo poche e semplici parole chiave nel motore di ricerca.
Pochi clic, ed ecco che sono saltate fuori una marea di notizie. Primo su tutti c’era un pezzo sul Tempio delle Tigri del National Geographic che raccontava di una serie di “stranezze” che si erano susseguite in quello che doveva essere un centro di recupero e reinserimento delle tigri. Fatti come l’uso massiccio di sedativi per rendere le tigri malleabili così che i turisti potessero farsi i loro selfie senza pericolo. O come la vendita delle tigri al mercato nero cinese per ricavarne di tutto un po’, alla faccia del progetto benefico.
Insomma, la gita al Tempio delle Tigri è saltata ancora prima di arrivare in Tailandia. Ma non ci siamo perse d’animo: avevamo un mese per fare un bel giro e le occasioni non sarebbero mancate di certo, ci dicevamo. E così siamo partite.
Abbiamo visto posti meravigliosi e anche un bel po’ di stranezze. E abbiamo avuto la conferma di come questa parte del mondo abbia ancora tanta strada da fare in materia di rispetto dell’ambiente (mai vista tanta sporcizia come in Vietnam) e di tutela degli animali, incluse le specie in via di estinzione.
Lo avevo notato nel mio precedente viaggio in Indonesia, dove i cavalli che dovevano portare i turisti sino al cratere di Mount Bromo erano a dir poco maltrattati. E già in quel caso, avevo capito che per ogni turista che si indigna per come vengono trattati gli animali ce ne sono almeno cinquanta che non se ne curano affatto. C’ero restata talmente male che per sfogare la rabbia ho persino scritto un articolo.
Mi ha molto rattristato anche vedere che l’enorme sito archeologico di Angkor Wat, in Cambogia, è pieno di elefanti che portavano in giro gruppetti di allegri turisti sotto il sole cocente e 40 gradi (più umidità) di temperatura. Peraltro, in un posto in cui i tuk tuk si sprecano e le bici sono facili da usare perché tutto piano, che senso ha montare in groppa ad un elefante? Ah, giusto… per divertimento.
Siccome a me gli elefanti piacciono davvero, ho pensato che magari a Koh Chang avrei trovato il modo di divertirmi anche io – in maniera responsabile – visto che nel Sud-Est asiatico qualcosa si sta muovendo e stanno sorgendo centri di riabilitazione per animali maltrattati e sfruttati.
Dato che Koh Chang è piena di elephant camp mi sono informata sulle loro attività, ma tutti proponevano gli stessi “divertentissimi” safari. Evidentemente il tornaconto c’è, se queste attrazioni continuano a spopolare. Eppure siamo nel 2016, e basta cercare in rete per essere bombardati di notizie su come gli elefanti siano sottoposti ad ogni genere di maltrattamento affinché si prestino a portare gente in groppa.
In pratica un turista che decide di fare un safari su un elefante sta chiaramente prendendo posizione e no, proprio non gli interessa se le conseguenze delle proprie azioni provocano sofferenze atroci sul povero animale. O la morte, come è successo un paio di settimane fa proprio ad Angkor Wat, dove un elefante è crollato stremato da caldo e fatica.
Insomma, non sono senza peccato nemmeno io, che di cose di cui mi pento ne ho fatte in abbondanza. Ma almeno l’averle fatte mi ha fatto prendere consapevolezza, e dai miei errori ho trovato la spunto per cambiare il mio modo di viaggiare, e per fare del mio meglio per usare il mio blog e i miei social media per convincere chiunque viaggi che farlo in maniera responsabile non è più costoso o meno divertente. E se qualcuno mi mette la pulce nell’orecchio che un’attività o attrazione turistica non sia etica, indago almeno un po’ prima di andarci e soprattutto prima di tagliare corto e dire “la pensiamo in maniera diversa”, o di fare finta di niente… atteggiamento che a me puzza tanto di ammissione di colpa.
Ormai il turismo responsabile non è solo una moda: presto sarà l’unico modo in cui si potrà concepire il turismo, o davvero dovremo dire addio a delfini, elefanti, tigri e tante altre specie animali che rendono il mondo meraviglioso.
Sono una blogger cagliaritana. In una vita precedente ha lavorato come ricercatrice nel campo del diritto internazionale dei diritti umani, poi sono partita per un viaggio per tutta l’America Latina, e da allora non mi sono ancora fermata.
Fantastico articolo cara Claudia. Concordo in pieno