Non l’ho mai proposto al FAI, ma uno dei miei luoghi del cuore in provincia di Sondrio è la Val Masino o, meglio, le sue tre valli laterali: quella di Preda Rossa, quella dei Bagni e la Val di Mello, soprattutto in ottobre, il mese dei colori. E così, vincendo le resistenze di mia moglie – “Hai detto che non saresti più andato in montagna da solo!”, “È vero… ma di sicuro troverò altri in giro a fare foto” – sono partito ancora col buio per la Valtellina. Otto chilometri dopo Morbegno si prende a sinistra e si sale nella valle.
C’è neve su al piano di Preda Rossa? “No, sono salito ieri sera, non ce n’è più – risponde il gestore del bar di Filorera appena prima della deviazione per la mia meta – deve però prendere il biglietto per poter salire.” Cinque euro ben spesi.
La strada sale decisa a tornanti, tutti tagliati dalle frecce che indicano il percorso per i matti del Trofeo Kima, 52 chilometri, 8400 metri di dislivello totale, 6 ore 12 minuti e 20 secondi il record. Ecco la galleria, quella che anni fa ho percorso a piedi al buio con un po’ di batticuore facendo scorrere una mano sulla parete. Altri tornanti e finalmente lo slargo che fa da parcheggio.
Ovviamente non c’è nessuno, unica compagnia il rumore del torrente. L’erba ghiacciata attorno a una pozza inquadra la cima del Disgrazia già illuminata dal sole. Qui c’è ancora ombra e fa freddo, meglio muoversi.
Duecento metri ed ecco la piana di Preda Rossa, un grande prato di erba ormai giallastra tagliato dalla fredda lama del torrente, a sinistra una lunga costiera grigia riscaldata dal primo sole su cui si arrampicano gli ultimi larici e rari pini, a destra le rosse cime dentellate e cupe nell’ombra dei Corni Bruciati.
Mi ha sempre sorpreso questa differenza di colore tra le due sponde della valle, ma adesso so il perché: la valle di Preda Rossa divide i graniti grigi della Val Masino dai serpentini rossastri del Disgrazia e della Valmalenco. Tra i due colori preferisco il rosso del Disgrazia e dei Corni Bruciati. Se solo scendesse un po’ di sole… sono arrivato troppo presto.
In fondo al prato l’acqua ristagna ghiacciata tra i cespi delle carici, le macchie di neve rimaste dall’ultima nevicata – o è stata la prima? – si infittiscono. Salgo lungo la mulattiera, cavalletto in spalla, mi giro per prendere fiato e la piana è proprio lì sotto, immobile, in attesa della luce. In fondo, sul versante opposto della Valtellina, la sagoma del Legnone.
Il secondo pianoro è più sopra, meno ampio del primo ma più vicino alla testata della valle, il Disgrazia coi suoi 3678 metri si staglia limpido dietro una grande morena, i Corni Bruciati incombono sulla destra. A proposito di morene e di ghiacciai, 20.000 anni fa un sasso caduto dai Corni Bruciati sul ghiacciaio di Preda Rossa poteva essere trasportato dal ghiacciaio fino a Montevecchia, provincia di Monza e Brianza, a 20 chilometri da casa mia. Adesso al massimo cadrebbe sulla mia testa.
Finalmente il momento che aspettavo rabbrividendo nel freddo: i primi raggi di sole illuminano di giallo le cime dei larici rompendo la penombra della valle. Fotografo sperando di riuscire a rendere la magia del momento.
È ora di tornare sulla piana principale ormai completamente illuminata. Fa quasi caldo, anche il torrente che girovaga indeciso non sembra più così gelido come stamattina. Il sentiero sulla destra orografica del pianoro corre per molti tratti su passerelle di legno per superare tratti inondati e non calpestare il manto erboso.
A metà percorso un cartello segnala, freccia puntata verso l’alto, “punto panoramico, 10 minuti”. Non resisto e salgo, e perdo tra i massi la traccia del sentiero. Ma alla fine arrivo e il panorama c’è davvero: in fondo a sinistra le nevi luminose del Disgrazia si sfilacciano sul rosso cupo dei Corni Bruciati in un classico quadro di montagna, il torrente disegna sottili ghirigori biancastri sul giallo rugginoso del pianoro, una lama di luce accende il verde ormai stanco dei larici sugli scuri ghiaioni che scendono dal Sasso Arso, nuvole bianche si perdono nell’azzurro del cielo. Lo so, sono troppo poetico, ma provate voi a descrivere un simile spettacolo, o meglio ancora venite a vederlo perché un’immagine vale più di mille parole.
Alla fine non ho trovato anima viva, nemmeno il mitico Gigiat, il cugino valtellinese del Bigfoot americano.
Cresciuto, tanti anni fa, sui romanzi di Kipling, Salgari e Verne, ho ritrovato l’anno scorso su un mio quaderno delle elementari un tema che descriveva un fantastico viaggio in piroga su un fiume nel cuore della giungla indiana. È da lì che evidentemente è nato il mio amore per le culture del sudest asiatico, l’India in primis, e per i fiumi lontani e le foreste oscure a partire dalla mitica Amazzonia.