È la più grande nazione dell’America Latina, la quinta al mondo, un Paese con oltre 200 milioni di abitanti, una delle economie in crescita – sebbene anch’essa attraversata dalla crisi – che contribuirà indubbiamente a definire i nuovi contorni della finanza globale. È il Brasile.
Noto ai viaggiatori di tutto il mondo per le sue spiagge leggendarie, per il Carnevale di Rio e per il calore dei suoi abitanti – oltre che per la pericolosità delle sue strade – negli ultimi anni il Brasile è al centro di numerosi dibattiti anche a causa dei discussi mondiali di calcio di cui è stato organizzatore, una folle doccia di miliardi di dollari contro cui si sono scagliate ampie fasce della popolazione, inorridita all’idea che si potesse spendere così tanto denaro per stadi e strutture utili solo alla FIFA quando negli ospedali e nelle scuole pubbliche mancano gli strumenti essenziali per garantire un servizio adeguato ai cittadini.
Come se non bastasse nel 2016 arriveranno anche le Olimpiadi, e nel frattempo la nazione carioca ha vissuto le elezioni più combattute e incerte della sua storia. Il 5 ottobre più di 142 milioni di brasiliani sono stati chiamati a scegliere il loro nuovo capo di stato – il Brasile è una repubblica federale presidenziale – e due giorni fa, lunedì 27 ottobre, il conteggio dei voti ha dato per la seconda volta la presidenza a Dilma Rousseff e al suo Partito del Lavoratori, portato sul tetto della scena politica dal predecessore Luiz Inácio Lula da Silva. Una vittoria sofferta, raggiunta con appena il 51 per cento dei voti, contro Aécio Neves da Cunha del Partito della Social Democrazia Brasiliana, una formazione nata a sinistra ma riconvertitasi alla destra a metà degli anni Novanta.
Corruzione, povertà, la violenza nelle favelas, sono solo i più impellenti drammi sociali che la nuova-vecchia presidente è chiamata ad affrontare. Io ho parlato di questo e altro ancora con Henrique Borralho, professore di Storia all’Università Statale del Maranhão, che ho avuto il piacere di incontrare durante il FAIMARATHON a Brescia.
Henrique si occupa attualmente della correlazione tra filosofia, letteratura e storia, ma è attivo su molti ambiti politici e sociali. Nel 2009 – su invito della professoressa dell’Università Cattolica di Brescia Anna Casella – è stato in Italia per la prima volta per una conferenza sullo stato della politica in America Latina. Nel 2012 è tornato per una conferenza su Mondiali e Olimpiadi in Brasile, alla cui organizzazione egli si è sempre strenuamente opposto. Condivide le sue analisi sul blog Versura e presto con lo stesso titolo uscirà anche una raccolta di poesie, racconti e cronache.
Henrique, come giudichi la visione politica che gli europei hanno dell’America Latina, a partire dalla tendenza americanista di bollare automaticamente come comunisti esponenti della sinistra come Chavez e Lula?
Occorre fare delle distinzioni: Chavez è comunista, Lula no. Lula ha favorito lo sviluppo sociale ed economico del Brasile, aveva una politica liberale, focalizzata sui poveri, sulle assicurazioni sociali. Dilma Rousseff per molti versi opera una continuazione della sua politica, ma è meno populista, più burocratica, meno carismatica.
Come giudichi l’esito delle elezioni presidenziali?
Il Brasile ha ancora oggi bisogno di continuità, nonostante la corruzione e la crisi sociale ed economica, una crisi dovuta ad un misto di contingenze globali e decisioni tecniche discutibili. Preferisco, pur sentendo il bisogno di criticarla, la vittoria di Dilma piuttosto che un ritorno della destra che avrebbe portato ad una concezione elitaria del progresso. I progetti neoliberali avrebbero influenzato l’intera regione, riaperto all’influenza diplomatica e militare degli Stati Uniti e modificato le relazioni diplomatiche in tutto il mondo.
Ci sarebbe mai stato il rischio di un ritorno alla dittatura militare, come durante il periodo tra il 1964 e il 1985?
No. Quella brasiliana è una democrazia giovane, ma ben consolidata. Ritengo improbabile un ritorno ad una dittatura militare. Sarebbe però stato possibile un inasprirsi dei rapporti con la Colombia, con Cuba, e anche con le nostre popolazioni amazzoniche.
L’immagine del Brasile è spesso offuscata dalla violenza nelle favelas. Esiste una soluzione?
La violenza in Brasile è causata dalla forte diseguaglianza sociale, dalle ingiustizie e dall’incapacità di perseguire i colpevoli. Le favelas, dove vivono circa 25 milioni di persone, rappresentano un grave problema da un punto di vista economico e una risoluzione a breve tempo è impossibile. Sarebbe però possibile estendere l’urbanizzazione a queste aree, ponendo così fine alla mancanza di stato ed estendendo le garanzie sociali anche a questa popolazione.
E riguardo ai casi di violenza da parte della polizia?
Non posso evitare di ammettere che la polizia brasiliana è violenta e corrotta. Entra nelle favelas sparando, e questo ovviamente determina una grave sfiducia nei suoi confronti. Anch’io che appartengo alla classe media, sono docente universitario, ho una casa, una macchina… non ho fiducia nella polizia, e il trattamento delle classi povere è ben peggiore di quello riservato a individui come me. Il Brasile è un paese meraviglioso, ma molto difficile e sta diventando sempre più elitario.
Sul tuo blog hai spesso criticato la decisione di organizzare i mondiali in Brasile e hai ribattezzato i disordini scoppiati nel 2013 come “Primavera Brasiliana”…
Il caos scoppiato nel 2013 era dovuto a quattro ragioni distinte: la cattiva congiunzione economica del Paese, una crisi politica determinata da una distanza sempre maggiore tra popolo e partiti, la crescente violenza della polizia e la crisi del servizio pubblico, intesa soprattutto come disfacimento del sistema scolastico e ospedaliero. Mescolate insieme, queste situazioni hanno generato una bomba sociale poi esplosa per le strade al momento delle proteste contro i Mondiali…
A cui tu sei sempre stato contrario.
Io mi ero espresso contro i Mondiali già nell’ottobre del 2012, anche davanti al comitato olimpico italiano. Tutto il popolo brasiliano era contrario e si è creata una situazione esplosiva in cui gli interventi arbitrari della polizia e le rivolte spontanee si sono mescolati in una confusione tale da non consentire di riconoscere più le responsabilità personali.
Ma durante i Mondiali non ci sono stati particolari problemi…
Il carro dei Mondiali è inarrestabile e quando ormai l’evento era alle porte anche chi protestava ha cominciato a lavorare duramente per difendere l’immagine del Brasile.
Ora tocca alle Olimpiadi.
Un’assurdità! In Brasile non abbiamo un solo programma dedicato allo sport nelle scuole pubbliche! Ora le Olimpiadi richiameranno nuovi confronti, anche perché i mondiali hanno prosciugato le casse dello stato.
Laureato in Giornalismo, il mio limbo professionale mi ha portato dagli uffici stampa alla carta stampata, per poi approdare al variopinto mondo della comunicazione digitale. Ho vissuto a Verona, Zurigo, Londra, Città del Capo, Mumbai e Casablanca. Odio volare, amo lo jodel e da grande voglio fare l’astronauta.