Da qualche minuto osservo lo schermo del gate all’aeroporto di Stoccolma, ripetendo mentalmente il nome della mia destinazione: si scrive Hemavan, ma non riesco a ricordare se l’accento vada sulla prima o sulla seconda sillaba. Con un gruppo di colleghi saliamo sul bimotore che ci porterà in questo posto dal nome impronunciabile al nord della Svezia.
È il cuore della Lapponia o, come mi hanno spiegato i nostri ospiti, del Sápmi, una regione scandinava che si estende tra Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia. Gli abitanti del Sápmi sono semi-nomadi: vivono grazie all’allevamento delle renne, e sono universalmente noti col nome di lapponi. In realtà è un termine dispregiativo derivante dalla parola laps, che significa “stracci”, a indicare che gli abitanti della regione erano considerati pezzenti. La parola corretta per indicare la popolazione indigena è Sámi, termine riconosciuto recentemente anche dalle Nazioni Unite.
Troviamo Johán ad aspettarci all’aeroporto di Hemavan: è una striscia di asfalto nel mezzo del nulla, e il terminal è una baracca di legno dipinta di rosso. C’è un minivan che ci aspetta per portarci all’Hemavans Högfjällshotell: un altro edificio rosso che ricorda gli alberghi delle stazioni sciistiche italiane dei primi anni Ottanta. La mia camera è essenziale: un letto singolo, una sedia e un bagno senza nemmeno uno scaffale dove appoggiare spazzolino e dentifricio. Il tempo di mettere un paio di scarpe da ginnastica e una maglia termica e sono di nuovo sul minivan insieme ai miei colleghi.
Siamo diretti in un posto ancora più isolato, dove conosceremo i Sámi nel loro accampamento, insieme a Johán. La nostra guida fa parte del Parlamento sámi, che rappresenta 80.000 persone semi-nomadi: durante la stagione fredda trascorrono il tempo nei cottage sparsi tra le montagne e le foreste, mentre durante i mesi estivi vivono nelle tende per seguire le migrazioni delle renne. Siamo all’inizio di giugno e la temperatura supera di poco lo zero, per cui non riesco neanche a immaginare cosa voglia dire vivere in queste zone “durante i mesi freddi”.
Di recente, ci spiega Johán mentre passiamo attraverso la desolazione più totale, i Sámi hanno vinto una battaglia importante: per anni si sono contesi questi territori con i proprietari terrieri, che cercavano in ogni modo di impedire il passaggio dei Sámi e delle renne. Il caso è finito in tribunale, dove la corte suprema ha dato ragione ai Sámi, garantendo loro il diritto esclusivo alla terra. È un passo verso il riconoscimento ufficiale nei confronti di una popolazione che per anni è stata oppressa: la loro terra è stata confiscata più volte e, nel corso degli anni, sono stati vittime di genocidi.
Oltre ad avere una lingua e un parlamento riconosciuti ufficialmente, hanno una bandiera, che vediamo non appena arrivati a destinazione. Il bus accosta tra abeti e cespugli: Johán ci fa strada verso una radura e ci invita a osservare lo spettacolo davanti ai nostri occhi. Le montagne ancora coperte di neve, sotto un cielo grigio pallido che in questo periodo non diventa mai scuro, e le tende degli indigeni. I Sámi sono lì ad attenderci: donne, uomini e bambini con gli abiti tradizionali nei colori blu, giallo, rosso e verde. Un anziano ci accoglie nella loro terra e ci descrive la bandiera, formata da un cerchio rosso che simboleggia il sole su uno sfondo blu.
Entriamo nella lavvu, la tenda più grande, e veniamo invitati ad accomodarci sulle pelli di renna sistemate a terra, intorno a una stufa dove le donne hanno messo a scaldare un liquido fumante. Ci rivelano il nome dell’accampamento, quasi fosse un segreto, e ci raccontano come la loro vita ruoti intorno alle renne: le seguono in ogni stagione, fino in cima alle montagne e attraverso le foreste.
Nel frattempo ci viene servita una bevanda dal colore simile al caffè e dal sapore indefinibile: è forte e amara, e viene prodotta facendo bollire delle erbe selvatiche. Si accompagna a un dolce a base di rabarbaro che abbiamo appena il tempo di gustare perché è ora di partire. Dopo la semioscurità della tenda, la luce è quasi abbagliante: il sole non si fa vedere, ma per qualche motivo c’è una luminosità particolare, forse dovuta alla latitudine estrema.
Ci incamminiamo lungo un ruscello, seguendo uno stretto sentiero quasi invisibile. Se noi camminiamo a fatica sui sassi e le radici, le nostre guide sono agili e leggiadre: allungano un braccio qua e là per raccogliere l’acetosella, ricca di vitamina C, i fiori di mirtillo che mangiano appena raccolti, e l’angelica, i cui gambi vengono canditi.
Arriviamo a un’altra radura, e finalmente le vediamo: le renne sono proprio davanti a noi. Sono maestose, con le loro pesanti corna, e anche un po’ malinconiche, con i loro occhioni che sembrano sul punto di lacrimare. Non sembrano essere spaventate dalla nostra presenza: i Sámi ci invitano ad avvinicinarci. Scattiamo qualche fotografia e riusciamo anche ad accarezzare questi grossi animali: le loro corna sono ricoperte di morbido pelo, dello stesso colore della pelliccia.
Johán ci spiega che la carne di renna è una delle più pure e pregiate: è ricca di vitamine, minerali e omega 3. Senza tralasciare il fatto che gli animali vivono in un ambiente incontaminato nutrendosi di erba, licheni e corteccia. La carne può essere consumata fresca, salata, o affumicata, ma la preparazione più tradizionale è il suovas: si ottiene salando la carne e facendola affumicare sul fuoco diretto in una tenda come quella in cui siamo stati ospitati. Il suovas viene poi tagliato a fette e servito insieme a funghi o bacche.
Quando torniamo alla radura, nella luvva ci aspetta un pasto a base di suovas, che ci viene offerto proprio come lo consumano i Sámi durante le loro migrazioni. È tagliato a fette sottili, quasi essiccato, e odora di fumo di legna. È accompagnato da una sorta di pane non lievitato scaldato sulla stufa a legna. Insieme, una salsa di cloudberry, una bacca simile al lampone ma dal colore giallo pallido, che cresce esclusivamente nella tundra delle regioni subpolari.
Ormai è sera: non lo si intuisce dal cielo che continua ad avere quello strano colore bianco-grigio, ma dalla temperatura che è scesa ulteriormente. Le pelli di renna e il fuoco della stufa ci scaldano, ma gli spifferi di aria fredda si insinuano tra le fessure della luvva. Ci pensano i nostri amici Sámi a scaldarci almeno il cuore: ci salutano intonando uno joik, una via di mezzo tra una preghiera pagana, un canto e una poesia.
Si pensa che siano state le fate e gli elfi delle foreste artiche ad aver insegnato ai Sámi questa tecnica di canto. E se sbircio fuori, oltre la pelle di renna che fa da porta alla tenda, ho quasi l’impressione di vedere elfi e fate che si muovono tra le renne.
Foto di copertina: CurieuxVoyageurs
Abito in un piccolo paese di provincia e lavoro in un ufficio in una stradina secondaria. Immagino però di vivere a Notting Hill, di lavorare a Williamsburg, di prendere un aperitivo a Montmartre e di cenare a North Beach. E magari di fare shopping sulla Fifth Avenue. Non so cucinare, ma adoro mangiare. Mi piace conoscere un posto nuovo attraverso il suo cibo e le sue tradizioni culinarie. Non riesco a fare a meno di raccontare quello che ho scoperto agli altri.
Mi è sembrato di esserci. Cosa darei, per poter vedere ancora posti come questi! Mi spiace solo che ci sia l’usanza di gustarsi piatti a base di renne: sono vegana e non potrei mai desiderare come cibo questi dolcissimi e liberi esseri, che vogliono vivere serenamente nella bella natura in cui sono nati, proprio come vorrei io. E come vorreste anche voi.
Ciao Lucia, grazie per la visita e per le tue parole: questa zona della Svezia è davvero incontaminata: sembra quasi impossibile che possano ancora esistere dei posti simili. In particolare poi, la storia dei Sami e delle loro renne è una storia travagliata e complicata che meriterebbe di essere approfondita.