Bosnia e Herzegovina venti anni dopo

La prima immagine del viaggio in Bosnia sono io che mi avvicino alla frontiera a piedi e il doganiere che, con aria sorpresa e stranita, guarda me e il zaino che porto in spalla. Lui che mi fissa incredulo, come faranno decine di altri suoi compatrioti durante questo viaggio, semplicemente non capendo cosa possa spingere uno straniero a viaggiare  con un  zaino sulle spalle. Da qui comincia il mio ramingo girovagare in cerca di tracce e chiavi di lettura per tentare di capire cosa succede nei balcani vent’anni dopo.

A Jajce ascolto le ragioni di chi cerca quotidianamente e faticosamente di scrostare le scorie del pregiudizio nella testa di bambini indottrinati già in tenera età. Mentre una professoressa di liceo mi parla, condivido l’ansia di chi mi racconta di tensioni crescenti in seno a queste valli di montagna, divisioni artificiali create ad arte da politicanti d’ogni parte per meri fini strumentali. E’ così che la fede religiosa viene distorta a concetto etnico per dividere la gente in caselle predefinite, utili al solito dividi et impera.

Muovendomi verso il cantone di Zenica percepisco la chiusura in se stessi di certi bosgnacchi, in una sorta di auto-difesa del proprio microcosmo personale come unica arma di resistenza. Ascoltando parole e discorsi che non riescono ( o non vogliono) nemmeno trasmettere  la rabbia di cittadini abbandonati dallo stato, avvitandosi in un fatalismo da sopravvivenza spiccia. Creando di fatto una situazione in cui lo sguardo viene distolto dal comune e dal comunitario per ricercare un illusorio auto-isolamento.

Viaggiando verso nord, lì dove comincia la pianura pannonica, i problemi, mi dicono, riguardano sopratutto un’identità nazionale. Il sentirsi bosgnacchi e’ il vero nodo centrale di tutta la questione: imparare a riconoscersi come comunità nazionale storicamente orgogliosa della sua eterogeneità religiosa. Ripartire dalla consapevolezza che non è facile ma possibile vivere insieme come la particolare storia della Bosnia ci testimonia. Questo ascolto a Tuzla seduto in uno dei tanti caffè all’europea del centro città, chiaccherando con alcuni amici parlando di Bosnia prima e di Italia poi.

Mi si gela il sangue quando con ostentata tranquillità uno dei ragazzi cita Rumiz senza conoscerlo e mi dice: “vedrai, Gianni, che  fra poco arriverete anche voi  a disgregarvi e a dissolvervi in una guerra fratricida…lo sai che il prefisso telefonico della Jugoslavia è il +38?…e il +39 a quale stato appartiene?”

Riprendo il mio cammino circolare attraverso il paese, ridiscendendo verso sud: Sarajevo. La città che ha subito l’onta del più lungo assedio del ‘900 è la testimonianza della forza mentale con cui i suoi abitanti hanno vinto moralmente. Quel  difendere contro ogni evidente ragione le proprie abitudini cittadine e cosmopolite è stata la ragione ultima  che ha permesso ai saravajesi non solo di sopravvivere ma di vincere.

Quando parlo con la gente percepisco come gli abitanti di questa città vogliano a tutti i costi vivere insieme tra ortodossi, ebrei, cattolici e musulmani in un ambiente multi culturale che è il sale e la storia di questa capitale. “Che senso ha uno stato che dice che sono cattolico o musulmano in base al mio cognome o che ragiona in termini di interessi di cattolici, musulmani o ortodossi?” mi dice un ragazzo di 20 anni davanti ad una birra.

Mentre guardo il ponte di Mostar, distrutto dai soldati-pastori dell’Erzegovina in un triste giorno del 1993, ripenso alla forza di quel simbolo di unione che è fortemente bosniaco e insieme  universale. Anche in questa zona, baciata in fronte dalla fortuna di avere una immagine sacra da vendere a certo turismo cattolico, se gratti la superficie vengono fuori strane nostalgie di un passato. Lontani dal rimpiangere il pugno di ferro di Tito, quei riferimenti al prima, appaiono sotto una luce diversa: memoria di uno stato che permetteva le differenze etnico-religiose senza averne paura.

Ripenso alle ragioni che mi hanno portato a girovagare tra queste montagne per comprendere e mi ricordo di un ragionamento di Paolo Rumiz: “la nostra difficoltà nel capire la Bosnia nasce proprio dalle resistenze dell’Europa a discutere su se stessa e a fare i conti con la propria storia. Noi rimuoviamo la Bosnia anche per la paura di doverci guardare in essa”.

2 commenti su “Bosnia e Herzegovina venti anni dopo”

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.