Al nostro arrivo al kibbutz, Roni e Offen ci accolgono con cortesia. Non è un saluto caloroso, non si sprecano sorrisi e i contatti sono limitati a decise strette di mano. Ma è una cortesia schietta e sincera, un modo un po’ ruvido ma molto umano e disponibile di accogliere dei forestieri giunti da lontano per osservare come vive chi ha deciso di abitare in prima linea.
Sì, perché il kibbutz Kerem Shalom non è che a una manciata di metri dalla Striscia di Gaza. E quando gli scontri tra Hamas e l’esercito di occupazione israeliano si fanno particolarmente cruenti, loro sono i primi a sentire i mortai fischiare sopra le loro teste, i primi a temere le imboscate dei guerriglieri che superano il confine attraverso i tunnel sotterranei. I primi a nascondersi dai razzi e dagli spari e, qualche volta, a cadere colpiti da schegge e proiettili.
La nostra non è una delegazione di alleati, questo è chiaro. A portarci fin lì è la redazione di Nena News, agenzia di stampa specializzata in questioni mediorientali che non fa mistero di appoggiare la causa palestinese. Il nostro autista, palestinese, ci ha portati fin lì da Betlemme, dalla Cisgiordania. Le nostre domande sono dirette, a volte brutali, persino provocatorie.
I due coniugi israeliani rispondono senza esitare, senza temere il nostro giudizio. Non hanno dubbi riguardo al trovarsi sulla terra che gli appartiene, né sulla legittimità di fare tutto il possibile per difendersi. Parlano quasi all’unisono: “Eravamo qua prima di tutti. Hanno cercato di ucciderci e siamo tornati, ancora e ancora. Hamas, Jihad, Isis… vogliono ucciderci tutti, sono loro a darci la caccia, non noi a loro.”
Lei, Roni Kissin, è considerata il capo della comunità. Risiede a Kerem Shalom da sei anni ed è sposata con Offer. Hanno due figli, ed è proprio la sua preoccupazione per i bambini ad essere centrale nelle prime riflessioni che condivide con noi. I bambini del kibbutz giocano sempre all’aperto, non hanno altro che gli spazi naturali per divertirsi. Ma hanno paura, sono traumatizzati dagli scoppi delle bombe vicine e lontane, guardano il telegiornale con i genitori e vedono gli uomini di Hamas che si preparano ad attaccare nei tunnel.
“Deve essere così anche per loro – riflette Roni pensando ai figli dei palestinesi – i bambini sono quelli che soffrono di più da entrambe le parti. La colpa è della politica, i nostro capi non capiscono, non vogliono capire…”
Offen Kissin era il capo della sicurezza fino a un anno fa. Un rigonfiamento sospetto della maglietta ci fa pensare che forse alcune abitudini non le ha ancora abbandonate. I suoi modi sono misurati, cordiali, un po’ formali. Lo sguardo si carica di intensità quando parla della perdita di un amico e degli episodi legati agli scontri. Al nostro arrivo ci mostra un video che riguarda un attacco al kibbutz con i mortai durante l’operazione Protective Edge del 2014, durante la quale morirono oltre 1400 civili palestinesi e cinque israeliani.
“Qua era l’inferno”, e in effetti è difficile non avvertire un senso di umana empatia guardando quei corpi rigidi che si buttano per terra sperando di non essere colpiti da qualche scheggia. “Immaginate come deve essere stato a Gaza, allora”, ci dirà Michele Giorgio, inviato de Il Manifesto e nostra guida in qualità di rappresentante di Nena News.
Eppure la maggior parte del tempo a Kerem Shalom si respira un’aria tranquilla. Si sente il canto degli uccellini, gli ampi spazi dominano gli orizzonti, il sole riscalda la pelle e il cuore. La principale attività del kibbutz è l’agricoltura, i cui prodotti costituiscono il nutrimento della comunità ma anche una fonte di guadagno tramite la vendita all’industria alimentare. Non tutti però sono agricoltori: alcuni residenti lavorano in città, soprattutto nel settore informatico. Poi però i soldi vengono dati alla comunità che li divide equamente per soddisfare i bisogni di tutti. Almeno per ora.
Il kibbutz Kerem Shalom è nato come una comunità socialista, a differenza di altri di stampo religioso. Tutti lavorano, tutti accedono alle stesse risorse. A luglio però ci sarà una riunione molto importante in cui si deciderà se modificare l’assetto organizzativo della comunità. “Il socialismo è un bel modo per vivere insieme – ammette Offen, che si dice socialista ma non comunista – è la vita migliore che si possa offrire ai nostri figli, ma servono delle persone speciali per farlo funzionare.”
Per far parte della comunità del kibbutz occorre superare un periodo di prova di due anni. Dopo tale periodo l’intera comunità vota se ammettere il richiedente e la sua famiglia in maniera definitiva. Non di rado gli aspiranti residenti vengono rifiutati. “È questo il privilegio di chi vive in un kibbutz: la libertà di scelta, poter scegliere con chi vivere.”
Ai margini del kibbutz scorre l’imponente muro che tiene i gazawi prigionieri nella loro stessa terra. Circa venti metri oltre il muro comincia la Striscia di Gaza. Sbirciando dai fori sulla superficie riusciamo a intravederla. Ma ciò che ammiriamo davvero sono i murales dipinti dai palestinesi lungo tutto il muro. “Molto belli”, concordano anche i due coniugi.
Il loro atteggiamento nei confronti dei vicini non è ostile, non ne parlano come di nemici o concorrenti per la sopravvivenza. Si rammaricano per il conflitto e danno la colpa ai leader di entrambe le fazioni. Ma quando innescano nella conversazione la loro narrazione è difficile non avvertire la retorica sionista aleggiare in sottofondo.
“Nel 1967 a Gaza non c’erano strade, né acqua, né corrente. Il kibbutz pagava molto bene e si faceva un’ottima vita. Il terreno è stato comprato un secolo fa da una famiglia di ebrei americani, prima di Israele, durante il mandato britannico.”
Secondo Roni e Offen il passaggio umanitario sul confine di Gaza è aperto. “Bambini, malati e feriti vengono curati negli ospedali di Israele. Molte persone lavorano in Israele.” Non esattamente lo scenario descritto dalle cronache di questi giorni, dominato da migliaia di profughi disperati in cerca di una via di fuga, schiacciati tra le porte serrate di Israele ed Egitto.
Alla fine arrivano le domande che tutti noi avevamo in gola sin dal momento in cui abbiamo messo piede nel kibbutz. Sarebbero disposti a lasciare la loro terra se ciò significasse raggiungere una pace duratura? “Non so che cosa accadrà in futuro – risponde Roni – non posso dire che cosa arriverei a fare. Vedremo quando sarà il momento.”
Quando arriva il mio turno so bene cosa chiedere. Prendo la parola senza alcun rancore verso questa coppia di combattenti, di agricoltori, di cultori della pace e della sopravvivenza armata. Glielo chiedo pur avvertendo una sincera gratitudine per come ci hanno accolti, per la pazienza nel rispondere alle nostre curiosità più veniali, per il tempo che ci hanno dedicato per raccontarci la loro vita in un posto che per noi è il simbolo di occupazione e colonialismo. Chiedo: se sono davvero desiderosi di vivere in pace con i palestinesi, sarebbero disposti a farlo anche in uno stato non ebraico, ma multiculturale, uguale per tutti?
Silenzio. Poi, dopo qualche lungo istante, a prendere la parola è Roni: “Questa è la nostra terra. È nostra, più di quanto sia loro o di chiunque altro.”
Laureato in Giornalismo, il mio limbo professionale mi ha portato dagli uffici stampa alla carta stampata, per poi approdare al variopinto mondo della comunicazione digitale. Ho vissuto a Verona, Zurigo, Londra, Città del Capo, Mumbai e Casablanca. Odio volare, amo lo jodel e da grande voglio fare l’astronauta.