Volare dall’Italia fino a Boston e non muoversi da Cambridge, in Massachusetts, non è una mossa intelligente. Sarebbe un po’ come arrivare a Roma e poi rimanere ad Aprilia. Ma quando si è in viaggio con il proprio boss, ogni suo desiderio è un ordine.
Così, dopo essere atterrati al Logan Airport alla sera tardi e dopo venti minuti di taxi, accompagno il boss in hotel, un quattro stelle nel centro di Cambridge, per poi attraversare la strada di una città sconosciuta e fare il check-in un motel dalla reception triste e l’ascensore fuori servizio. Per fortuna la camera è al secondo piano, quindi riesco a salire le due rampe di scale con il trolley senza svenire.
Il mattino successivo mi sveglio in una stanza che poche ore prima non mi era sembrata così polverosa e spartana, decorata con colori che vanno dal beige all’arancione al marrone. Ho appuntamento con il capo nel suo albergo, da dove insieme a un altro collega dobbiamo partire per Boston per un’intervista in radio. Non c’è il ristorante nel mio motel, per cui niente colazione: solo caffè istantaneo in un bicchiere di polistirolo. Tra poco però vedrò Boston, è l’idea è sufficiente per farmi vedere solo il lato positivo delle cose.
La giornata non è delle migliori: l’aria è fresca e il cielo grigio non promette niente di buono. Cerco di non trovare delle similitudini con l’umore del mio capo, sperando di trovarlo un po’ meno cupo delle nuvole sopra la mia testa. Quando entro nell’hotel sta già parlando con il nostro collega americano, pronto a partire alla volta del centro di Boston. Che purtroppo non vedrò perché, quando il boss è già seduto sul taxi e io sto aprendo la porta anteriore per salire in macchina, mi annuncia che non andrò con loro. Ho una missione più importante, ossia trovare un posto dove cenare quella sera. Vorrei chiedergli se mi sta prendendo in giro ma prima che riesca a rendermene conto, se ne sono andati senza di me.
Potrei prendere un altro taxi e passare qualche ora a Boston, ma poi correrei il rischio di farmi trovare impreparata al ritorno del boss. Perciò mi rassegno a passare la giornata a Cambridge, decisa a trovare qualcosa per cui valga la pena di trascorrere qualche ora in questa città. D’altra parte è qui che si trova la sede del famoso M.I.T., il Massachusetts Institute of Technology.
Il primo motivo per cui vale la pena di fermarsi a Cambridge è senza dubbio la colazione al Charles Hotel. Un po’ perché ho fame, un po’ perché sono indispettita per essere stata lasciata indietro, mi presento all’Henrietta’s Table, il ristorante dell’hotel in cui alloggia il boss, decisa a far addebitare la mia colazione sul suo conto. In questo locale un po’ shabby chic lo chef Peter Davis ha creato un menù che si basa sugli ingredienti locali e sulle ricette tradizionali del New England. Il suo motto fresh and honest si rispecchia nei piatti semplici: il succo d’arancia è fresco e le uova in camicia con il prosciutto affumicato sono ottime. Peccato per il tempo incerto, che non mi permette di gustare la colazione sul terrazzo esterno.
Lascio il ristorante dopo aver firmato con nonchalance la ricevuta di addebito sulla stanza del boss, diretta verso la piazza principale della città. A pochi minuti a piedi dall’hotel si trova la Harvard University, una delle università della Ivy League. Una volta attraversato il Johnston Gate, sembra di entrare in un’altra epoca. Cammino tra i vialetti del campus, dove ho l’impressione di trovarmi in una città dentro la città. Arrivo fino all’Old Yard, il cortile sul quale si affacciano i Freshman Dorms, i dormitori degli studenti del primo anno, immaginando le loro vite oltre le finestre di questo severo edificio.
Proseguo fino alla John Harvard Statue, la statua del benefattore dell’università. Poco più in là si trova la Widener Library, la biblioteca del campus: mi intrufolo sotto il portico di colonne che rende l’edificio più simile a un tempio che a un luogo di studio, per scoprire che l’accesso è riservato agli studenti e al personale docente. Non vedrò mai i preziosi volumi custoditi oltre la porta, quindi mi dirigo verso Massachusetts Avenue, fiancheggiata da un lato dalle cancellate del campus e dall’altro da edifici bassi in mattoni rossi.
La strada ha un’aria tranquilla e un po’ fuori moda, come molti dei negozietti che vi si affacciano. Il primo che incontro è Leavitt & Peirce: vende tabacco e tutto quello che è associato all’arte del fumo. Mi attirano la vetrina e l’insegna a caratteri dorati su sfondo nero, che si accompagnano perfettamente agli interni del negozio, con gli scaffali di legno e i banconi con la merce esposta sotto i ripiani di vetro: rasoi, gemelli, porta monete, accendini, bastoni da passeggio. Oggetti che appartengono a un’epoca passata, come i contenitori – almeno una quarantina – che vendono diverse varietà di tabacco a peso, come se fosse caffè. Non compro nulla, ma almeno mi sono riparata per un po’ dal freddo.
Poche centinaia di metri più in là si trova un altro negozio dove per qualche minuto si può fingere di essere uno studente di Harvard, vagando tra i banchi sui quali sono esposti i volumi dell’Harvard Book Store. Il profumo dell’inchiostro sulla carta è inebriante, e si mischia a quello della pioggia che ha iniziato a cadere leggera, oltre le ampie vetrate. Mi sposto da un tavolo all’altro, non osando fare come la maggior parte dei clienti che hanno preso dei volumi dagli scaffali e li stanno leggendo comodamente seduti su una delle poltrone di pelle. Compro un paio di libri e ne approfitto per rimpiazzare la mia borsa per il computer: il giorno prima, all’aeroporto di Monaco, la tracolla ha deciso di strapparsi costringendomi a tenere la borsa in mano, come una cartella. Questo nuovo acquisto – insieme alle due t-shirt con la scritta Harvard University – mi permetterà di illudermi per un po’ di aver davvero studiato qui.
Torno verso l’hotel, per aspettare il capo e il mio collega, ma prima di rientrare faccio una breve sosta all’Algiers Coffee House, dove a un minuscolo tavolino del secondo piano ordino un caffè americano, godendomi la vista sui tetti di quest’angolo di città e sulle stradine rese lucide dalla pioggia.
Pochi minuti dopo, mentre aspetto il verde del semaforo pedonale, mi rendo conto di essermi dimenticata del motivo per cui sono rimasta qui invece di andare a Boston. Non ho prenotato il ristorante per questa sera. In preda al panico, cerco su Google Maps i locali più vicini, evitando a malincuore il John Harvard’s Brewery, un birrificio dove non mi sarebbe dispiaciuto provare qualche birra insieme a una mezza dozzina di ostriche. Ma immagino che non sia il posto adatto al capo: decido di provare con il Legal Sea Foods, un ristorante di pesce poco lontano.
Corro come se fosse la maratona di Boston, evitando gli ombrelli e le occhiate dei passanti mentre cerco di raggiungere il ristorante. È un miracolo se non mi faccio investire da un ciclista o, peggio ancora, da un taxi con proprio il capo a bordo. Cerco di riprendere fiato, leggendo i piatti sul menu esposto sulla porta. Tutto sommato potrebbe piacergli: vongole fritte, tortini di granchio, diversi chowder e altri piatti a base di pesce del New England. Entro e prenoto un tavolo per tre: spero che il posto sia di suo gradimento, altrimenti farò la fine degli spiedini che il cameriere sta portando a uno dei tavoli.
Foto di copertina: Thomas Hawk
Abito in un piccolo paese di provincia e lavoro in un ufficio in una stradina secondaria. Immagino però di vivere a Notting Hill, di lavorare a Williamsburg, di prendere un aperitivo a Montmartre e di cenare a North Beach. E magari di fare shopping sulla Fifth Avenue. Non so cucinare, ma adoro mangiare. Mi piace conoscere un posto nuovo attraverso il suo cibo e le sue tradizioni culinarie. Non riesco a fare a meno di raccontare quello che ho scoperto agli altri.