Gli innamorati seduti sulle panchine di pietra si guardano in silenzio, nel capannello di pensionati si discute di politica internazionale, due cavalli al passo in mezzo al prato, un gruppetto ciarliero di donne Nordic Walking, una ragazza solitaria in jogging col cane, il fruscio di due mountain bike sul sentiero tra gli alberi, i volti tirati degli asceti del running, indifferenti a tutto questo andirivieni, le foglie cadono posandosi leggere come farfalle sui prati ancora verdi, sugli sterrati umidi d’autunno e sull’asfalto bituminoso dell’autodromo.
Il sole dell’estate di San Martino riscalda il giallo acido dei liriodendri che come una Stonehenge vegetale bordano il rondò di Viale Cavriga, più in là il soffitto di foglie del filare di tigli che da via Lecco arriva al Ponte delle Catene si accende di riflessi dorati, in controluce le foglie pennate dei noci americani sembrano brillare di luce propria, lungo le stradine il giallo pastello degli aceri ricci si inorgoglisce contro le terre di Siena delle foglie dei carpini, nei boschetti le querce rosse si spogliano silenziose delle loro foglie color mattone.
Intanto la vite canadese dal muro della cascina Pariana grida ai liquidambar lì davanti che più rosso non ce n’è, neanche quelli della stradina che parte dal rondò di Viale Cavriga sono di un rosso così acceso ma loro non se ne curano, sanno che lo spettacolo è ai loro piedi, migliaia di foglie stellate di tutte le tonalità, dal giallo smorto delle pagine inferiori al rosa-arancio delle punte su su fino al profondo cremisi delle foglie più vanitose, un parchwork naturale troppo bello per essere calpestato.
E’ invece un piacere passeggiare sugli sterrati tra i grandi platani e sentire sotto i piedi il fruscio delle foglie secche e fermarsi per seguirne una con lo guardo mentre ruota pesante in aria fino al tonfo a terra, e poi camminare sui sentieri che seguono zigzagando le rive del Lambro e riconoscere un bagolaro dalle piccole drupe nere nascoste a terra tra le sue foglie verde brunastro, calpestare con un po’ di dispiacere quelle gialle a forma di cuore di uno dei numerosi pioppi neri che costeggiano il fiume, sorridere a quelle più piccole del pioppo bianco che sembrano stelline dell’albero di Natale e poi finire su uno dei grandi viali e fotografare silhouettes lontane sotto un arco di luce.
Ma è novembre e quando arriva la pioggia tutto cambia. Le folate di vento puliscono le ultime foglie dai rami degli alberi, solo le roverelle se le tengono strette, poi l’acqua cade insistente, scivola come dita nere sui tronchi e lungo i rami e sgocciola dalle punte delle foglie degli alberelli che cercano l’ultima luce della stagione, a terra le foglie color bronzo delle querce si compattano sotto il peso dell’acqua, sulle rive del Lambro i cipressi di palude lasciano cadere i loro aghi rugginosi nel fiume in piena, i colori dell’estate di San Martino sbiadiscono nelle pozzanghere.
Ma dopo la pioggia, armati di obiettivo macro e vestiario da campagna, ci si può sdraiare a fotografare qualcuno dei 500 e più funghi identificati nel Parco e nella Villa Reale. Nei prati ci sono ovviamente i prataioli e le gambe secche, ai piedi dei tronchi e sulle ceppaie i chiodini e i piopparelli, e gli altri? Ci sono quelli duri come il legno che sporgono come mensole dai tronchi, quelli a forma di corallo giallo che in Trentino chiamano manine, quelli che se li schiacci sbuffano fuori una nuvoletta scura di spore, quelli rossi delle favole, quelli bianchi ma un po’ nocciola, quelli dal cappello viscido, quelli gelatinosi, quelli dal bordo arancio, quelli commestibili e quelli velenosi, quelli grandi e quelli piccolissimi che li vedi solo se davvero ti sdrai per terra e osservi le foglie su cui vivono, un mondo lillipuziano e affascinante.
Quando cala la luce il parco si svuota, una nebbiolina sale bassa dai prati, invade lenta i viali e si insinua tra gli alberi come la malinconia nell’anima, nella foschia in fondo allo sterrato si intravvedono le sagome degli ultimi runner, è autunno nel Parco di Monza.
Cresciuto, tanti anni fa, sui romanzi di Kipling, Salgari e Verne, ho ritrovato l’anno scorso su un mio quaderno delle elementari un tema che descriveva un fantastico viaggio in piroga su un fiume nel cuore della giungla indiana. È da lì che evidentemente è nato il mio amore per le culture del sudest asiatico, l’India in primis, e per i fiumi lontani e le foreste oscure a partire dalla mitica Amazzonia.